La semantica del Samadhi
di James Austin - 23/11/2005
Fonte: innernet.it
Un neurologo e praticante zen registra le fasi, e i significati, del samadhi. Nelle profondità dell’assorbimento interiore, non solo gli stimoli sensori vengono meno, ma nessun pensiero provoca alcuno dei suoi consueti riflessi mentali.
“La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca.” Albert Einstein (1879-1955).
“Con tutta la tua scienza puoi dirmi in che modo, e da dove, la luce è entrata nell’anima?” Henry David Thoreau (1817-1862).
“Arriva il momento in cui non appare alcun riflesso. Si arriva a non scorgere, non sentire, non udire, non vedere nulla… Ma non si tratta di un vuoto «vacuo». Piuttosto, è la condizione più pura della nostra esistenza.” Katsuki Sekida.
Un argomento insidioso, il samadhi. Una parola così multiforme da porre grandi problemi semantici. Essa viene molto impoverita nelle traduzioni, come sa chiunque cerchi di limitarla a un solo significato. Alcuni la rendono come concentrazione, altri come assorbimento, altri ancora come trance, quiete, collettività ecc.
Le ambiguità risalgono ai tempi antichi. Nel sanscrito, “samadhi” significava raccogliere insieme, riunire varie cose. Successive tradizioni culturali hanno dato a questo termine significati diversi. Per tradurre la parola “samadhi”, furono impiegati sei diversi caratteri cinesi: tre per trasmettere il suono e tre per conferire significato.
Attingendo alle antiche pratiche yogiche, i primi buddisti indiani descrissero circa otto livelli lungo il cammino di quello che chiamavano “samadhi”. I livelli sono difficili da visualizzare in astratto, e lo zen stesso avrebbe prestato a queste divisioni un’attenzione scarsa e formale. Comunque, essi descrivono delle sequenze che per noi conservano ancora un interesse generale. Per esempio, i primi quattro stadi si rivelano quando il meditatore si concentra su un oggetto, una forma materiale o un concetto attinente. All’inizio i pensieri – che derivino da sensazioni di origine interna o esterna – cessano. Poi irrompe un’attenzione prolungata ed estatica che si focalizza sull’oggetto fondamentale di concentrazione. Essa è accompagnata da sensazioni di rapimento e beatitudine. Chiaramente, siamo sul sentiero definito della meditazione concentrativa.
I primi testi definiscono le successive quattro fasi del samadhi “livelli privi di forma”. Durante questi stadi sempre più avanzati, il rapimento e l’estasi si affievoliscono, il respiro rallenta sensibilmente e subentra l’equanimità. Sorgono ulteriori raffinamenti della concentrazione e dell’equanimità. E a questo punto, tutte le distinguibili sensazioni corporee come l’estasi o il piacere vanno perdute. Adesso lo spazio infinito diventa l’oggetto della consapevolezza, seguito dalla coscienza di un’infinità priva di oggetti e, quindi, dall’assorbimento in un vuoto che ha il “nulla” come oggetto. Alla fine, nell’ottava fase, si forma ciò che non è “né percezione né non-percezione”, accompagnato da ulteriori raffinamenti delle sensazioni di equanimità e concentrazione. A tali stadi avanzati, il campo della consapevolezza è privo di pensieri fuorvianti o di forme conosciute di associazione. Livelli più elevati di samadhi diventano accessibili solo ai soggetti che si impegnano nelle tecniche di meditazione concentrativa in modo totale e intenso, non al meditatore casuale.
La parola “samadhi” viene usata in senso più ristretto nel buddismo attuale, dove continua a indicare molte delle succitate fasi che sorgono lungo il cammino generale della meditazione concentrativa. Ma nell’induismo in generale, l’elasticità del termine gli permette di allargarsi fino a indicare, talvolta, quello stato di profonda concentrazione in cui l’unione o l’assorbimento si tramuta in qualcosa di più vicino alla realtà “assoluta”.
Per i nostri scopi presenti, “samadhi” può ancora indicare un riunirsi, un mettere insieme, se consideriamo implicito in tale unione il modo in cui la consapevolezza si muove verso, si fonde con, si stringe a e si imbeve di qualunque cosa esista nel suo campo. Per me, occorre dare una definizione di “samadhi” per trovare il suo uso più appropriato nel contesto zen. Io preferisco il termine generale assorbimento. Esso è indicato per due ragioni: (1) esprime il modo in cui il sé fisico si dissolve quando l’attenzione si sviluppa oltre i limiti ordinari; (2) implica la dedizione totale – quasi l’essere avvinti, sembrerebbe – a un campo di attenzione a esclusione degli altri.
Pensiamo a un’occasione, nella vita di tutti i giorni, in cui un evento critico ha catturato la nostra attenzione. Per il pescatore che usa il sughero, l’assorbimento giunge quando il sughero sparisce dalla vista: solo un grande pesce può tirarlo così in basso! In tali momenti, il tempo si arresta. Movimenti ben coordinati possono intervenire sul mulinello e la canna da pesca, ma la consapevolezza del sé fisico passa in secondo piano.
Un’attività o un hobby possono avvincere totalmente una persona per molti minuti od ore. Perdersi felicemente in un hobby vuol dire immergervisi tanto profondamente, e con tanta leggerezza, che non resta più nessuno a preoccuparsi del successo o del fallimento della nostra attività. A quel punto, l’hobbista non è più il prigioniero del tempo; la vita fluisce gioiosamente. Nishitani lo dice con poche parole: “Sei in samadhi quando non sei più consapevole di stare pensando”. Un termine giapponese per questo stato è “yugizammai”, samadhi giocoso. Esso vuol dire, letteralmente, gioco-assorbimento. Sottolinea il fatto che una persona intenta nel gioco-assorbimento deve conservare un atteggiamento molto efficiente nel mondo reale in genere. Quando entri nel samadhi giocoso, non perdi l’udito, la vista o le altre indispensabili funzioni senzienti; se così non fosse, sarebbe naturalmente impossibile riuscire a portare quel pesce sul terreno o svolgere una qualsiasi altra attività fisica.
Anche nelle sue forme quotidiane più semplici, il samadhi indica una consapevolezza in espansione verso l’esterno, diretta a una fusione con l’oggetto di concentrazione. Esempi potrebbero essere: il chirurgo, il cui assorbimento sorge grazie a un controllo volontario quando deve affrontare una crisi al tavolo operatorio; oppure lo spettatore, totalmente avvinto quando, durante una partita di baseball, la corsa vincente supera la terza base. In tali casi, un evento esterno cattura totalmente l’attenzione di una persona. Per tali situazioni, alcuni userebbero l’espressione samadhi positivo. Per i nostri scopi, qui, sembra più opportuno mantenere questa distinzione fondamentale introducendo un termine meno elastico. E assorbimento esterno, invece di samadhi esterno, sembra il modo più appropriato di descrivere quei momenti in cui gli occhi di una persona sono aperti e vivi.
D’altra parte, alcuni assorbimenti sono il risultato di un profondo volgimento verso l’interno. In presenza di un tale stato interiorizzato, il corrispondente termine descrittivo può essere assorbimento interiore. Le caratteristiche centrali di un intenso assorbimento interiore comprendono: (1) l’assenza di pensieri spontanei; (2) una consapevolezza intensificata, fissa, interiorizzata; (3) l’espansione di una consapevolezza straordinariamente chiara nello spazio circostante; (4) la scomparsa del sé corporeo; (5) una caratteristica esclusione di ogni suono o immagine; (6) una serenità estatica e profonda; (7) un rallentamento sensibile o la cessazione del respiro.
Tale perdita sensoria, unita a una consapevolezza amplificata fino a raggiungere uno stato di brillante intensità, è uno stato singolare. Non è possibile immaginare alcun connubio del genere. È necessario farne l’esperienza e tornare indietro.
Figura 1: Il campo mentale ordinario. Gli stimoli entrano dal mondo esterno e dagli eventi propriocettivi interni. La loro fusione sembra contribuire a un sé centrale pensante. Legenda: Mondo esterno. Stimoli uditivi: “suoni”. Udito. Stimoli visivi: “immagini”. Vista. Stimoli tattili: “tocco”. Tatto. SÉ. Propriocezione.
Nel frattempo, un paio di diagrammi potrebbero essere di aiuto nella nostra analisi. Supponiamo di cominciare adottando la seguente premessa: il limite che separa il nostro sé ordinario dal mondo esterno è un costrutto mentale. In tal caso, il nostro campo mentale conscio contenente queste relazioni sé/l’altro, assomiglierà al diagramma della fig. 1. Allora, per contrasto, lo stato di assorbimento interiore con perdita sensoria può essere rappresentato schematicamente dal secondo diagramma (fig. 2).
Si notino quanti arresti esistano durante l’assorbimento interiore. Il campo mentale dell’individuo è privo di sensazioni visive, uditive e tattili. Qualcosa impedisce loro di entrare dal mondo esteriore. Assenti sono pure i più sottili sensi propriocettivi che sorgono dall’interno del sé fisico. Tutto ciò che rimane è una chiara consapevolezza elevata al grado “n” attraverso un vuoto “pieno”. Le due barre della figura 2 indicano la possibilità che la trasmissione sinaptica possa essere bloccata nel cervello in più di un punto.
Figura 2: Il campo mentale dell’assorbimento con perdita sensoria. Un intenso assorbimento cancella il sé fisico ed elimina i comuni limiti fisici dell’io. Qui, le linee tratteggiate servono solo a indicare i suoi limiti precedenti. Ciò che rimane è una consapevolezza espansa, silenziosa, elevata, chiara e oggetto di osservazione. Notare che le sensazioni sono bloccate. Legenda: Mondo esterno. La vista è bloccata. L’udito è bloccato. Il tocco è bloccato. La propriocezione è bloccata. Beatitudine diffusa. Pensieri non autodiretti. Chiara consapevolezza espansa.
Figura 2: Il campo mentale dell’assorbimento con perdita sensoria. Un intenso assorbimento cancella il sé fisico ed elimina i comuni limiti fisici dell’io. Qui, le linee tratteggiate servono solo a indicare i suoi limiti precedenti. Ciò che rimane è una consapevolezza espansa, silenziosa, elevata, chiara e oggetto di osservazione. Notare che le sensazioni sono bloccate. Legenda: Mondo esterno. La vista è bloccata. L’udito è bloccato. Il tocco è bloccato. La propriocezione è bloccata. Beatitudine diffusa. Pensieri non autodiretti. Chiara consapevolezza espansa.
Nelle profondità dell’assorbimento interiore, non solo gli stimoli sensori vengono meno, ma nessun pensiero provoca alcuno dei suoi consueti riflessi mentali. In seguito, quando la persona esce da questo momento interiorizzato, le percezioni sensorie e le affezioni sembrano ripulite. “Ti ritrovi pieno di pace e serenità, dotato di grande potere e dignità mentale”, ha scritto Katsuki Sekida in Zen Training: Methods and Philosophy; “Sei intellettivamente sveglio e all’erta, emozionalmente puro e sensibile”.
I meditatori cominciano la seduta quotidiana con un preludio di inchini e altri rituali meditativi. Questi diventano preparativi semivolontari, parte della routine per rinforzare la concentrazione. Ma in seguito, in un episodio di assorbimento, ciò che sopravviene è una concentrazione involontaria. E il modo in cui essa si impone è piuttosto straordinario. Alcuni autori hanno concluso che tre tecniche meditative rendono più facile l’accesso al samadhi: (1) seguire passo dopo passo, con totale assorbimento, un’espirazione dietro l’altra; (2) focalizzarsi sull’addome inferiore (il “tanden”); (3) chiudere gli occhi (cosa non ortodossa per lo zen), in modo da facilitare lo sguardo verso l’interno.
D. T. Suzuki racconta cosa gli accadde al quinto giorno di una particolare sesshin. Egli era entrato nel samadhi ed era totalmente assorto nel suo koan, Mu. In quel momento, aveva perso ogni senso di separazione artificiale precedentemente implicito nella frase “Essere consapevole di” Mu. Ora, egli “era in” Mu. Unito al suo koan, D. T. Suzuki era nell’unione del samadhi.
Adesso viene la fase successiva: l’elevazione, o l’uscita, dal samadhi. Si tratta di un intervallo delicato, che può rivelarsi critico. In questa fase di chiarezza, uno stimolo improvviso può provocare il kensho o satori. Per quelle stesse persone che, poco prima, erano totalmente assorte nel loro koan, una liberazione improvvisa da tale concentrazione può diventare la soglia del kensho. In verità, per illustrare ulteriormente questo punto, è importante osservare cosa avvenne in seguito nel caso di D. T. Suzuki. Infatti, fu quando una campana lo risvegliò da questo particolare samadhi, che egli progredì sperimentando il satori.
In questo, e in numerosi altri esempi, si scopre che un periodo di samadhi può essere un preludio al kensho. Più spesso, esso è un episodio separato che precede il risveglio di settimane, mesi o anni. Ma talvolta può precederlo di pochi secondi. Si può valutare allora come, quando questi due stadi si succedono uno dopo l’altro, siano in grado di esercitare un grande impatto. Un novizio stordito potrebbe più tardi descrivere l’intero episodio come un complesso evento in evoluzione, dimentico del fatto che le due categorie di eventi, succedendosi l’una dopo l’altra in sequenza, si sono mescolate.
I più semplici episodi di samadhi si fondono alla vita quotidiana in altri modi. Quando i meditatori più avanzati scendono più in profondità, entrando e uscendo da fasi sempre più profonde di assorbimento, in seguito trattengono per un periodo più lungo i residui di chiara consapevolezza e il loro stato d’animo leggero, vivace e fluido. Queste qualità, in seguito, si espanderanno per rinforzare quella quieta consapevolezza in grado di apprezzare con gratitudine tutti i meravigliosi eventi che formano una giornata.
James H. Austin è professore emerito di Neurologia allo Health Science Center dell’Università del Colorado. È autore di Chase, Chance and Creativity. I brani tratti da Zen and the Brain: Toward an Understanding of Meditation and Consciousness, di James H. Austin, sono riprodotti con il consenso della Mit Press.