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Iraq e Vietnam, diversità e similitudini

di Andrea Beccaro - 09/03/2007




Da qualche tempo ormai i paragoni tra Vietnam e Iraq si sprecano e di certo le difficoltà americane a trovare il bandolo della matassa aiutano ad avvicinare i due conflitti. Le somiglianze però non devono far scordare le tante diversità perché altrimenti si rischia di sovrapporre alla situazione irachena presente lezioni vietnamite senza un prerequisito essenziale di qualunque operazione militare: l’adattamento alla situazione sul terreno.

Entrambe le guerre hanno in comune il concetto di controinsurrezione, ma questo non deve far pensare che lo stesso approccio che avrebbe potuto funzionare in Vietnam possa ora dare risultati in Iraq. Le insurrezioni nei due Paesi sono profondamente diverse da più punti di vista e per questo vanno affrontate con mezzi diversi. Per prima cosa la base sociale da cui gli insorti traggono la loro mano d’opera: in Vietnam la società era rurale e la massa dei vietcong era contadina, vietnamiti profondamente radicati sul territorio. In Iraq invece molti insorti sono stranieri arrivati nel Paese per combattere gli americani (in modo simile a cosa successe negli anni Ottanta in Afghanistan contro l’Urss) e inoltre lo scontro è prettamente urbano con ovvie ricadute sulle tattiche.

Oltre a ciò lo sviluppo delle operazioni belliche è profondamente diverso. In Vietnam l’intervento americano fu graduale: iniziò negli anni Cinquanta con qualche consigliere militare, per aumentare lentamente sotto l’amministrazione Kennedy fino ad arrivare al coinvolgimento militare vero e proprio con Johnson. In Iraq invece l’insurrezione si è verificata dopo uno scontro tradizionale tra due eserciti vinto facilmente e rapidamente da quello americano. Non è stato applicato il concetto di gradualità, anzi la dottrina era quella dello shock and wave: usare subito la forza per terrorizzare e bloccare il nemico.

I problemi sono dovuti semmai allo scarso numero di truppe di terra impiegate una conseguenza più che di una strategia contingente sbagliata di una dottrina strategica dominante e di una politica militare troppo fiduciose verso la guerra tecnologica che oltre a promettere risultati incredibili aveva il non secondario risultato di permettere una riduzione sostanziale degli effettivi e quindi delle perdite con ricadute più attenuate sull’opinione pubblica.

La diversa dinamica in cui i due conflitti si sono svolti dovrebbe portare alla mente altre esperienze piuttosto che a quella vietnamita. Spesso nel dibattito americano a questo punto vengono citati i casi della Germania e del Giappone al termine della seconda guerra mondiale, ma in quei Paesi mancò completamente un’opposizione armata e organizzata con cui l’esercito americano avrebbe dovuto scontrarsi. Un esempio migliore, ma meno incoraggiante, potrebbe essere quello del Blitzkrieg tedesco contro la Russia, quando un’avanzata strepitosa non riuscì (anche a causa della politica sconsiderata dei tedeschi) a ottenere un controllo del territorio nelle retrovie permettendo così ai partigiani di complicare non poco i flussi di rifornimenti alla prima linea.

Il radicamento sul territorio della guerriglia vietcong faceva sì che oltre alla ideologia comunista ci fosse una forte e ben presente componente nazionalista. L’obiettivo dichiarato ed evidente sin dal 1945 era l’indipendenza del loro Paese. Per questo Ho Chi Min e Giap, malgrado utilizzassero tattiche guerrigliere, combattenti irregolari e forze regolari del nord avevano comunque un controllo sulle operazioni che dovevano seguire un piano strategico preciso e mirato a quell’obiettivo. In Iraq manca tutto ciò e sarebbe più corretto parlare di diverse insurrezioni contemporanee.

Manca una regia dietro al movimento poiché gli stranieri che combattono nel Paese sono legati ad Al Qaeda e gli stessi iracheni sono divisi tra sciiti, sunniti e curdi ognuno con i propri obiettivi e le proprie priorità. Questo aspetto complica notevolmente l’approccio americano alla guerra perché se già combattere un’insurrezione per volta è difficile, affrontarne due-tre contemporaneamente nello stesso teatro operativo diventa un’operazione proibitiva. Inoltre lo scontro interno tra i diversi insorti rischia di degenerare (o forse lo è già) in una guerra civile, il che renderebbe la situazione ingestibile o quasi.

Un’altra grande differenza tra le due tipologie di insorti risiede nel loro retroterra. Il Vietnam al momento dei primi interventi americani aveva alle spalle dieci anni di guerra contro la Francia che si ritirò nel 1954 dopo Dien Bien Phu e lasciò il Paese diviso in due. La guerra continuò fino al 1975, ovvero fino a quando il Vietnam divenne un unico Paese. Questo significa che i guerriglieri erano una forza addestrata, motivata ed esperta, tutte caratteristiche solo in parte applicabili in Iraq. Qui, infatti, se sulle motivazioni di chi si fa saltare in aria non ci possono essere dubbi, sull’esperienza e sull’addestramento invece rimangono molte perplessità.

Questo spiega anche le diverse tattiche impiegate nei due Paesi poiché i vietcong adottarono una tattica guerrigliera derivata dagli insegnamenti di Mao (una prima fase di propaganda, una seconda di guerriglia e infine creazione di una forza regolare per sconfiggere il nemico), mentre in Iraq non c’è nulla di tutto questo. Le forze combattenti vengono quasi ignorate mentre c’è una forte predilezione verso obiettivi morbidi: principalmente civili, forze di sicurezza locali, contractors e convogli militari. Pur senza dimenticare Nassirya, tutti i caduti della coalizione e i diversi abbattimenti di elicotteri la cronaca quotidiana mostra una predilezione per obiettivi più semplici e più “mediatici” nel senso che procurando molti morti vengono subito ritrasmessi in tutto il mondo grazie ai media.

Manca comunque una forza guerrigliera organizzata che coordini il tutto e prospetti un’azione massiccia contro le forze della coalizione come invece avvenne in Vietnam. In Iraq la scelta della tattica da usare è sempre caduta sin dall’inizio su atti terroristici il più delle volte diretti contro la popolazione. In Vietnam invece la scelta degli obiettivi era molto più selettiva (anche se i vietcong utilizzarono l’arma del terrorismo) poiché l’obiettivo era di conquistarsi il sostegno della popolazione. Inoltre l’insurrezione in Vietnam così come in Algeria e in gran parte delle guerriglie di quel periodo aveva alle spalle un’organizzazione politica ben radicata che deteneva il controllo sull’ala armata.

Questo elemento era tanto fondamentale che secondo Roger Trinquier la sua distruzione avrebbe dovuto essere il principale obiettivo, anche se il più difficile. In Iraq, pur senza negare l’esistenza di infrastrutture dietro i diversi attacchi, manca un qualcosa di paragonabile ai governi ombra presenti in Vietnam e Algeria. In Indocina il movimento vietcong coinvolse gran parte della popolazione, grazie alla propaganda e alla intimidazioni, ma in Iraq non esiste un movimento di massa di questo genere proprio per i motivi prima ricordati: scarsa coesione tra le diverse anime dell’insurrezione; mancanza di un nazionalismo di fondo che come in Vietnam possa compattare la popolazione; tattiche mirate a colpire i civili.

Se allarghiamo un po’ lo sguardo cogliamo altre differenze di fondo tra le due situazioni. La prima e la più ovvia è il contesto internazionale. La guerra in Vietnam fu combattuta all’interno della Guerra Fredda, di una politica internazionale ben chiara, delimitata e tutto sommato statica (riguardo alle sfere di influenza, alle alleanze principali e alla libertà di azione dei singoli attori) mentre l’Iraq avviene in un mondo non più bipolare, fortemente regionalizzato, scosso da movimenti di riscoperta religiosa e da trasformazioni economiche e tecnologiche sempre più veloci.

Tutto ciò ha forti ripercussioni sulla situazione irachena poiché se la guerriglia nel sud del Vietnam era appoggiata dal Nord che a sua volta aveva alle spalle principalmente la Cina ma anche diversi Paesi del blocco socialista, gli insorti iracheni non possono contare su un appoggio di tale entità. Certo, Paesi come l’Iran e la Siria e organizzazioni come al-Qaeda non sono estranei al conflitto e appoggiano più o meno apertamente una delle fazioni in lotta, ma tutto ciò non è nemmeno da paragonare al flusso di aiuti militari, e non solo, di cui disponeva il Vietnam. La massa è profondamente diversa.

Alle diverse componenti dell’insurrezione irachena manca un protettore simile alla Cina e manca soprattutto un Paese come fu il Vietnam del Nord in grado di coordinare, gestire e comandare le operazioni sul campo e di sobbarcarsi il peso e la fatica della guerra oltre che portare sull’arena internazionale le proprie ragioni. Quello che invece, da questo punto di vista, accomuna le due situazioni è il fatto che sia per il Vietnam sia per l’Iraq l’America si è trovata in disaccordo con i suoi alleati, anche i più stretti, che di conseguenza non hanno appoggiato o lo hanno fatto solo in minima parte l’intervento. Nonostante l’invio di soldati, in entrambi i casi non si è riusciti a creare un consenso internazionale sul tema.

Un’altra differenza sostanziale tra le due situazioni riguarda il teatro operativo. Oltre al fatto che in Indocina l’insurrezione, come già detto, fu contadina, condotta nelle campagne o nella giungla mentre in Iraq è principalmente urbana, i due Paesi sono profondamente diversi per posizione strategica. Il Vietnam era ai margini del blocco dominato dell’America e l’intervento fu giustificato quasi esclusivamente con la teoria del domino (se cade il sud poi cadrà la Cambogia, poi il Laos e via così). L’Iraq invece è situato nel cuore dell’area di maggior crisi del mondo post-89 ed è un Paese ricco di petrolio, perciò è una situazione strategica centrale per gli equilibri futuri sia del Medio Oriente sia globale.

Sottolineate le profonde diversità è ora utile concentrarsi sulle similitudini che sono da ricercarsi più che nella situazione militare in sé nella riflessione che ne può nascere. Infatti, una prima riflessione riguarda l’intelligence: un aspetto fondamentale di ogni guerra e ancor di più all’interno di una controinsurrezione. In Vietnam l’America non riuscì a distinguere il nemico dalla popolazione civile e impiegò le sue forze a terra e la sua enorme potenza di fuoco contro obiettivi inesistenti nella migliore delle ipotesi, sbagliati nella peggiore. In questo modo il nemico si disperse e fu ancora più difficile da trovare, ma inoltre, ed è questa la seconda riflessione, non riuscì conquistare il cuore e le menti della popolazione, il vero obiettivo di ogni operazione di controinsurrezione.

Per quanto si può vedere e capire in Iraq (ma i recenti episodi in Afghanistan ci costringono ad allargare la nostra visuale), oggi la situazione non è molto diversa: l’intelligence è piuttosto debole e la popolazione non è amichevole. Giungere a una conclusione non è facile perché la guerra in Vietnam è finita da più di 30 anni e ha prodotto una miriade di ricerche e riflessioni, mentre l’operazione in Iraq è in pieno svolgimento e nessuno può sapere come muterà la situazione. Certo è che, malgrado le differenze profonde, le poche similitudini dovrebbero far riflettere poiché riguardano proprio i punti focali della tipologia di conflitto che si dovrebbe condurre.

Infine l’ultima somiglianza tra le due riguarda le forze in campo: da una parte una grande potenza dall’altra un nemico molto piccolo e debole. Una situazione simile non è una novità; il problema è che come disse Kissinger: “La guerriglia vince se non perde. Un esercito convenzionale perde se non vince”. E il fattore tempo, centrale per le democrazie, gioca a favere del debole.