Dall’altra parte dell’evoluzione
di Giuseppe Sermonti - 23/11/2005
Fonte: Rivista di Biologia
Caratteristica di quasi tutte le opere moderne sull’evoluzione biologica, è il fatto che esse non trattano che marginalmente il problema dell’evoluzione. Si occupano di confronti molecolari o di reperti paleontologici o di genetica di popolazione o di speciazione, ma non affrontano il vero problema evolutivo, che è quello della genesi delle forme e delle funzioni. Una rimarchevole eccezione a questa tendenza è l’opera del grande citologo portoghese Lima-de-Faria, “Evoluzione Senza Selezione”, tradotta in italiano nel 2003, dall’edizione inglese del 1988. L’opera sarebbe senz’altro, dagli evoluzionisti di scuola neo-darwinista, derubricata come irrilevante nella letteratura evoluzionistica, perché, escludendo la Selezione Naturale, accantona proprio il concetto base con cui essi risolvono tutti gli enigmi della genesi e dello sviluppo dei viventi. La selezione è liquidata dall’autore, in due primi brevi capitoli, forse troppo sommariamente, qualificata come l’oppio dei biologi e paragonata al flogisto dei chimici e all’etere dei fisici.
All’epoca dell’uscita dell’opera inglese, il problema della “forma”, era considerato marginale e pletorico, essendo tutta l’attenzione dedicata al biochimismo fondamentale dei viventi, con particolare riguardo alla cosiddetta evoluzione molecolare. Tutta la ricerca estranea a quest’approccio e dedicata alle forme era considerata metafisica. Notevole è il fatto che Lima-de-Faria, appassionato di forma e funzione, non ha alcuna propensione per la metafisica e aspira ad una visione materialista dei viventi, avendo esclusa la selezione naturale proprio per il suo carattere alchimistico. Il concetto che egli adotta, e che compone il sottotitolo dell’opera, è quello di “auto-evoluzione”, cioè di evoluzione spontanea per linee tendenziali predeterminate. L’auto-evoluzione dispiace agli evoluzionisti di scuola neo-darwinista perché accantona il caso e l’opportunismo, ma è anche sgradita ai proponenti di interventi trascendentali, perché sostituisce l’ordine intelligente con una dubbia auto-gestione. Ma il nostro non ama né il diavolo né l’acqua santa, e non si preoccupa di essere gradito ad altri che ai ricercatori spassionati della verità.
La tesi centrale del libro è che la forma e la funzione non sono un prodotto o un’astuzia della vita, per la semplice ragione che vengono prima della vita. Forme e funzioni non viventi hanno preceduto la comparsa della vita e hanno presentato in anteprima tutta la fantasia morfologica della natura, nel fiero e severo abito dei minerali. Fiori, penne, arborescenze, simmetrie, spirali, geometrie precedettero animali e vegetali ed adornarono i deserti e il sottosuolo, prima che il soffio della vita li arruolasse nelle strutture viventi. Prima che potesse essere messa alla prova la selezione naturale, che richiede la competizione tra viventi.
Il libro è uno splendido Atlante di forme a confronto. La stessa forma, come dimostrato dalle belle e numerose tavole comparative, si trova in minerali, microbi, vegetali e animali, e a volte persino nella grandezza smisurata delle formazioni celesti. Riccioli d’argento nascente, frutti di Martinia lutea, zanne di mammut disegnano curve risalenti che l’autore non esita a considerare “omologhe”. Del pari una scarica elettrica centripeta, la sezione di una radice con le sue radichette, una stella marina gorgoniforme e la sezione di una zampa di echinoderma tracciano disegni similari (pag.115). Emozionante è il confronto tra squame d’oro puro allo stato vergine, una foglia di felce, l’antenna di un insetto, il costato di un rettile arcaico (pag. 119). Cristalli di ghiaccio, l’”albero di Natale” dell’RNA nascente, piume d’uccello e l’abete formano una confraternita di figure sorelle tra loro ma figlie di diversi reami (pag. 161). Chi altri troverebbe un’omologia tra il delta del Colorado, i vasi extraembrionali di un coniglio e una quercia invernale (pag. 165)?
Che cosa dimostrano queste mirabili omologie? Esse indicano l’esistenza di “forme di base” intorno alle quali tende ad organizzarsi la materia, vivente o non. Questi modelli d’organizzazione non discendono da archetipi collocati fuori della realtà, né da idee platoniche in attesa nell’empireo. Neppure sono il risultato di obblighi matematici, come le vide D’Arcy Thompson, né, tanto meno, sono la risposta ad aristoteliche cause finali o a bergsoniani slanci vitali. Per Lima-de-Faria esse sono inerenti alla materia e all’energia, presenti già all’origine dell’universo, destino inderogabile di processi primevi. Tutta l’evoluzione era già preparata nelle particelle elementari, da queste rimessa agli elementi chimici del sistema periodico e quindi trasferita ai minerali. Tre evoluzioni precedono e indirizzeranno quindi l’evoluzione dei viventi: subatomica, chimica, minerale. Il loro svolgimento, come quello della quarta evoluzione, quella organica, è “inerente alla costruzione della materia e dell’energia”. L’insieme di questi processi, che sono in gran parte autonomi dal mondo circostante, sono chiamati “auto-evoluzione”. Tutto il mistero del mondo è concentrato nell’attimo della fondazione. Allora, insieme alla materia e all’energia, furono poste le poche forme base che avrebbero disegnato la realtà. Forme come modi di disporsi della materia-energia, non come predicati esterni ed aggiuntivi.
E’ sorprendente che uno dei maggiori citogenetisti viventi lasci fuori dal fondamento dell’evoluzione geni e cromosomi, che per l’evoluzionismo corrente (à la Dawkins) ne sono la causa unica. Geni e cromosomi arrivano tardi, nel grandioso processo evolutivo, e nel libro solo alle pagg. 333 e sgg. “Il gene - riassume l’Autore - ha permesso il fissaggio delle alternative e ha introdotto le combinazioni degli elementi dei livelli precedenti”. Consideriamo una conchiglia: essa riceve la sua composizione e la sua forma fondamentale da cristalli di carbonato di calcio. Il gene non fa che intercalare il suo prodotto proteico nello scheletro minerale, inducendone deformazioni e stabilendo così se la conchiglia sarà sferica o ovoidale, corta o lunga, grande o piccina. Il cromosoma viene ancora dopo e impone, nella disposizione dei geni, la sequenza temporale degli eventi. Geni e cromosomi si limitano a stabilire restrizioni spazio-temporali e canalizzazioni nella evoluzione biologica (p.340).
La visione di Lima-de-Faria è severa e determinata. Non c’è spazio per il caso e per il gioco spensierato della natura, per quella che Karen Blixen chiamò “la manifestazione di uno spirito universale – inventivo, ottimista e giocondo all’estremo – incapace di trattenere i suoi scherzosi torrenti di felicità.” Tutto il pensiero di Lima-de-Faria è improntato a un assoluto determinismo, indifferente alla coscienza, alla volontà e al libero arbitrio. L’Autore, cercando di estendere la sua visione auto-evolutiva al comportamento umano, si addentra nel terreno pericoloso della sociobiologia e si trova nella scomoda compagnia dei selezionisti più estremi, del calibro di Wilson e di Dawkins. Egli sostituisce al determinismo genetico e a quello selettivo un determinismo chimico-fisico, forza l’istinto in una regìa molecolare e conclude che “il comportamento degli animali è rigorosamente determinato da agenti fisici e chimici dei quali non sempre siamo coscienti.” Persino il sorriso si atteggia a una smorfia fisico-chimica, senza “vantaggio” selettivo, ed è quindi in linea con l’auto-evoluzione. Qui l’analisi del nostro citologo pretende forse troppo. La conoscenza non può prescindere da un contorno di inconsapevolezza, e il fatto di non essere “sempre coscienti” non è un inconveniente, è piuttosto quell’incertezza che rende la vita umana possibile, che genera la sensazione della libertà, e consente un sorriso spensierato. Sono d’accordo con la considerazione del curatore della traduzione, Stefano Serafini, che “le leggi fisiche hanno, nell’evoluzione biologica, un ruolo più importante di quanto sia stato accettato sinora…”, ma ritengo che tra i principi base che traiamo dalla fisica merita un posto anche il principio di indeterminazione.
Il fascino dell’opera di Lima-de-Faria è nella ricerca delle ragioni della evoluzione all’estremità opposta a quella adottata dal darwinismo. “L’origine delle specie” è l’esito terminale dell’evoluzione, la cui ragione è invece investigata nelle forme primordiali. Il momento più alto dell’opera è laddove il geniale studioso portoghese di geni e cromosomi dichiara che geni e cromosomi non sono poi così importanti per capire l’evoluzione. Essi compaiono abbastanza tardi nel corso dell’evoluzione, che per gran parte della sua strada ha potuto fare a meno di loro. Se il modello dell’evoluzione va cercato in ciò che l’ha preceduta e avviata, allora si deve risalire all’alba della formazione dell’universo, e cercare quel modello nel protone, nel neutrino e nel bosone, nei quark e nei leptoni, soffermarci sugli elementi chimici, sui composti e sui minerali, e poi solo prenderà senso lo studio della forma e della funzione di piante e animali, e avremo allora cominciato ad apprendere i misteri della vita, affacciandoci appena alla sua soglia arcana.
Antonio Lima-de-Faria, Evoluzione senza Selezione. Autoevoluzione di Forma e Funzione, edizione italiana a cura di Stefano Serafini. Nova Scripta, Genova 2003, pp. 453, € 45,00.