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Afganistan. La democrazia dei B.52

di U.F. - 10/03/2007


 



L'attentato, con relativa strage tra militari, contractor e civili, contro la base militare di Bagram del 27 febbraio in occasione della segretissima visita del vice presidente statunitense Dick Cheney, appare a tutti gli effetti come la premessa dell'imminente primavera di guerra, già annunciata dall'intensificarsi dei bombardamenti aerei Usa e Nato.
Dopo sei anni di conflitto, la capacità operativa della cosiddetta "insorgenza" afgana indica, senza equivoci, il fallimento politico-militare dell'attacco all'Afganistan voluto dall'amministrazione Bush.
Interessante rileggere, a distanza di tempo, il discorso pronunciato dal presidente Usa il 21 settembre 2001, alla vigilia dell'aggressione.
Un discorso in cui si annunciava l'inizio della guerra infinita per il "completo annientamento della rete globale del terrore", in cui non era escluso l'impiego di "ogni capacità della polizia, ogni influenza finanziaria e ogni arma da guerra", così come erano comprese pure "operazioni coperte, segrete anche dopo che avessero avuto successo".
Le parole conclusive avevano persino un tono profetico: "Qualcuno parla dell'inizio di un'epoca di terrore: so che abbiamo davanti lotte e pericoli, ma saremo noi, non altri, a definirne i tempi".
I tempi invece, ormai è chiaro, non sono certo dettati e scanditi da chi aveva troppo presto cantato vittoria.
Basta leggere e riflettere sul diverso tono delle più recenti dichiarazioni dei vertici della Nato.
Il segretario generale aggiunto, Martin Erdmann, ha ribadito che "La comunità internazionale deve prepararsi a rimanere in Afganistan per decenni… Penso che se guardiamo a teatri come quelli di Bosnia Erzegovina e Kosovo, dove noi tutti siamo impegnati da oltre dieci anni, allora per l'Afganistan ritengo che dobbiamo pensare anche in termini più lunghi rispetto a questi due teatri europei".
Il segretario dell'Alleanza, Hoop Scheffer, durante una conferenza stampa con il presidente afgano Karzai, da parte sua è giunto ad usare toni da scontro finale: "l'Afganistan è la linea del fronte nella guerra contro quella gente che vuole distruggere il tessuto stesso delle nostre società".
Ancora lo scorso 7 settembre, ad Atlanta il presidente Bush assicurava che i talebani stavano fallendo i loro sforzi "disperati" di riprendere il controllo dell'Afganistan. Nel suo discorso sulla lotta al terrorismo nel quinto anniversario dell'Undici Settembre, riferendosi ai "talebani e ai resti di Al Qaeda", era giunto a prevedere che: "Falliranno perché gli afgani hanno provato il gusto della libertà. Falliranno perché la loro visione del mondo non regge il confronto con una democrazia. Falliranno perché non potranno resistere alle forze militari dell'Afganistan libero, della Nato e degli Stati Uniti".
Invece, proprio dalla valle di Bagram, nell'estremo nord della provincia di Helmand, sede della più grande base militare Usa, così come lo fu per le armate sovietiche prima del loro ritiro, verrà con ogni probabilità lanciata l'offensiva delle forze talebane e, secondo alcune indiscrezioni, vi si insedierà il comando della guerriglia; infatti il terreno aspro e isolato ne fa una base perfetta, con possibilità di ritirata attraverso i valichi di montagna dell'Hindu Kush.
Ma sarebbe comunque erroneo, ritenere che la guerra in corso è soltanto tra imberbi marines e barbuti talebani, perché ormai i comandi Usa e Nato devono affrontare una diffusa ostilità popolare e un'eterogenea resistenza armata, con consistenti appoggi esterni.
Basta leggere l'intervento di Miriam Rawi, 32 anni, esponente delle donne rivoluzionarie del Rawa (pubblicato su Il Manifesto del 28 febbraio scorso) per comprendere la tragedia rappresentata dall'occupazione militare: "Le politiche di Karzai e dei suoi padroni occidentali hanno oggi portato l'Afganistan a una situazione molto critica: il disastro è una bomba a orologeria che può esplodere in qualunque momento. In questi cinque anni, sotto le insegne della «democrazia» e della «libertà», sono stati usati con successo il tradimento e la beffa, e la situazione in cui versano i diritti umani è l'effetto del doloroso inganno di questo governo, guidato dai signori della guerra (…) Le condizioni di sicurezza in Afganistan sono critiche: le donne e le bambine sono le più colpite. Uomini armati dell'Alleanza del Nord hanno preso parte a stupri, rapimenti, omicidi, saccheggi e ad altre forme di violenza (…) Secondo l'Onu, l'Afganistan sta affrontando disastri sanitari ancora peggiori dello tsunami del 2004 (…) L'America cerca di mantenere in Afganistan una stabilità fragile e momentanea. Così facendo, spera di far passare in tutto il mondo un'immagine di successo nella promozione di un Afganistan «democratico», una «democrazia dei B.52»".
Eppure, in Italia, c'è chi continua a sostenere o a subire le ragioni dell'interventismo militare tricolore per fini "di pace".