Giustiniano. Le scelte impolitiche di un imperatore
di Marina Montesano - 11/03/2007
Nel suo ponderoso saggio su Giustiniano, lo storico francese Georges Tate individua nelle persecuzioni sistematiche degli eretici e nelle campagne militari le cause della fragilità del suo regno
Nel 532 a Costantinopoli scoppiò una rivolta che avrebbe poi preso nome dal grido di battaglia degli insorti, Nika! («Vinci!»). L'insurrezione era cominciata da uno scontro tra i fautori delle due fazioni nelle gare circensi, i «verdi» favoriti dalla plebe e gli «azzurri» considerati la squadra degli aristocratici. In realtà sembra però che il tumulto fosse fomentato dall'interno della corte e da una parte dell'aristocrazia. In quell'occasione, Giustiniano fu sul punto di fuggire dalla capitale: secondo la tradizione, a trattenerlo e a salvargli il trono fu la presenza di spirito della moglie Teodora, una donna dalle oscure origini - il malevolo storico di corte, Procopio di Cesarea, sostiene che era stata «mima» (attrice di basso livello: un eufemismo per dire che aveva fatto la prostituta) - che dopo una profonda crisi religiosa aveva attratto Giustiniano il quale l'aveva sposata nel 525, due anni prima di ascendere al trono. La rivolta venne repressa nel sangue: è uno degli episodi più cupi della vita di un grande imperatore, che, pur chiudendo per certi versi la parabola del mondo antico, lasciò al contempo un'eredità fondante per il mondo moderno.
Gli ha dedicato ora un ponderoso studio lo storico francese Georges Tate (Giustiniano. Il tentativo di rifondazione dell'impero, Salerno Editrice, pp. 1024, euro 78), che prende avvio dagli assetti istituzionali e dal quadro delle riforme - religiose, politiche, militari - dei predecessori per introdurre il personaggio centrale. Rispetto ai grandi quadri amministrativi e politici, il Giustiniano legislatore passa qui forse in secondo piano. La codifica e la riforma del diritto, ossia il suo lascito principale alla storia europea, occupano infatti solo un capitolo: non molto, in un'opera che si aggira sulle mille pagine (e che avrebbe avuto bisogno di un editing più attento nella versione italiana, punteggiata da numerosi errori di traduzione). Probabilmente, come scrive Tate, «nessuno contesta l'importanza dell'opera di Giustiniano, ma generalmente si esprimono serie riserve sulla pertinenza della sue scelte politiche», soprattutto in merito alle scelte in campo religioso e alle campagne militari.
A ragione Tate sottolinea che non in tutti i campi Giustiniano fu un innovatore, ma seguì una strada già tracciata nei due secoli precedenti. In particolare, proprio la persecuzione sistematica degli eretici e degli oppositori - capitolo in cui si inscrive la rivolta della Nika - costituiva l'esito di un processo evolutivo avviato con Diocleziano. Ma era una strada necessaria? Tate non indugia in tentazioni ucroniche, ma dalle pagine finali sembra emergere la consapevolezza che un'inversione di tendenza in favore di una maggiore tolleranza delle dottrine teologiche contrapposte nella Chiesa d'Oriente avrebbe contribuito sulla lunga durata a rafforzare l'impero e avrebbe evitato - si può aggiungere con il proverbiale senno di poi - che gli eretici perseguitati accogliessero come liberatori gli arabi un secolo più tardi.
Una questione altrettanto dibattuta dalla storiografia, che Tate affronta con spregiudicatezza, riguarda le campagne militari che miravano a riprendere il Mediterraneo occidentale, troppo spesso liquidate come un fallimento, dal momento che l'avanzata araba avrebbe conquistato di lì a poco l'Africa settentrionale (che Giustiniano aveva sottratto ai vandali) e la penisola iberica (contesa ai visigoti), mentre dal 568 in Italia avrebbero fatto irruzione i longobardi. A ragione lo storico sottolinea che non si trattava di un miraggio: a seguito delle riforme dello stesso Giustiniano e di quanti lo avevano preceduto, Bisanzio era un impero florido e potente; l'impresa era dunque alla sua portata, e non se ne possono tacere i frutti più duraturi, quali lo stretto legame che d'allora in poi si sarebbe creato con l'Italia, un legame che si sarebbe interrotto solo nell'XI secolo con l'avvento dei normanni. Naturalmente, resta aperta la discussione sulla sua scelta di voler guardare a un Occidente impoverito e soggetto al predominio germanico; cosa sarebbe accaduto se l'imperatore si fosse volto al più ricco Oriente, all'Asia più che all'Europa? La risposta ovviamente non è facile, ma la domanda è legittima.