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Una metamorfosi ambientalista per il laboratorio di Gaia

di Roberto Marchesini - 13/03/2007

 
Nella convinzione da un lato che la tecnologia ci dia il controllo sulla realtà esterna e dall'altro che l'attività umana sia qualcosa di diverso dalla natura, sta il limite del dibattito ambientale. Ma le ultime tendenze ecologiste mettono in luce un nuovo orientamento

Il rapporto dell'Intergovernmental Panel on Climate Change presentato al recente vertice di Parigi ha evidenziato senza mezzi termini come l'aumento della temperatura complessiva del pianeta sia dovuto a responsabilità umane. Eppure, nonostante questa ennesima testimonianza, che va a completare un quadro ormai sempre più chiaro, ancora si procrastina e soprattutto si stenta a mutare il modello di riferimento che sta alla base di una situazione tanto critica. Troppo spesso infatti si ritiene che il problema vada ricondotto a fattori tecnici, sfuggiti al controllo umano. E di conseguenza le soluzioni avanzate cadono in una antinomia: o si aumentano la capacità di controllo (tecnofilia) o si diminuiscono i circuiti che possono «impazzire» (tecnofobia).

Bisogno di scienza

Qui, nella convinzione da un lato che la tecnologia ci dia il controllo sulla realtà esterna e dall'altro che l'attività umana sia qualcosa di sostanzialmente diverso dalla natura, sta il limite del dibattito sulla questione ambientale. Tale impostazione ha un nome, antropocentrismo, che non è un semplice orientamento etico nei confronti del non umano, ma un paradigma che pretende di enucleare l'uomo dal mondo. Proprio l'atteggiamento nei confronti della tecnoscienza è lo specchio della chiusura di cui questo dibattito ha finora sofferto, sia nelle proiezioni ottimistiche di coloro che affidavano al caleidoscopio tecnologico la soluzione di ogni problema, sia nelle profezie di sventura dei sostenitori del neoluddismo.
La radice del problema non sta ovviamente nella conoscenza in sé o nella traduzione tecnologica del sapere. Anzi, per rendere più efficaci ed efficienti le nostre prassi, dobbiamo allargare le nostre conoscenze rispetto ai processi naturali, sviluppare tecnologie capaci di produrre di più a minor costo, elaborare pianificazioni che sappiano coniugare il dato locale con quello globale: in una parola, abbiamo bisogno di più scienza.

L'interfaccia con l'artificiale

Il punto critico è un altro, e va individuato nell'insieme di significati che attribuiamo al nostro essere nel mondo, a quel complesso di valori che informano la nostra condotta e i nostri obiettivi, alle cornici interpretative dell'interfaccia con il non umano e innanzi tutto al significato che assegniamo al sapere e all'operatività dell'uomo. È il paradigma culturale il vero nodo gordiano del problema e fingere di non vederlo significa continuare a ignorare i punti deboli dell'ambientalismo stesso.
In una ipotetica parabola che va dalle prime riflessioni di Aldo Leopold a oggi, la metamorfosi del pensiero ambientalista presenta un percorso culturale complesso e problematico, anch'esso in parte responsabile della scarsa penetrazione di questi temi nel pensiero comune e nelle azioni politiche. È doloroso ma necessario constatare che nell'immaginario collettivo gli ecologisti continuano a essere stigmatizzati come profeti di sventura, romantici amanti della natura, detrattori della modernità. Poco in realtà si è fatto per cambiare la cornice di riferimento, per evitare che l'ambientalismo fosse considerato solo una questione tematica o magari un problema trasversale. Da decenni ormai ci confrontiamo con proiezioni catastrofiste (il «naturismo» degli anni '70, lo «spiritualismo» degli anni '80, il «millenarismo» degli anni '90), mentre i viraggi tematici subiti di volta in volta dalle argomentazioni ambientaliste - dalla catastrofe nucleare all'erosione della biodiversità, dalla bomba demografica al surriscaldamento del pianeta - hanno assunto inevitabilmente il profilo di mode temporanee, più adatte a traduzioni cinematografiche che a una seria riflessione.

D'altra parte, i pretesti per non prendere posizione non sono mancati. Più volte l'opinione pubblica ha avuto l'impressione che il grido d'allarme risuonasse come un birichino «al lupo al lupo» volto solo a turbare il meritato banchetto di benessere a cui ci accingevamo a partecipare. A suggerirci che fosse opportuno non lasciarsi prendere dal panico era di volta in volta lo «scienziato con i piedi per terra», il politico che riportava l'attenzione sul pil e sulle politiche di sviluppo (ossia di consumo), il filosofo che sottolineava la relazione stretta tra cultura occidentale e umanismo, l'opinionista di grido pronto a bilanciare la scarsità di idee con l'acutezza del sarcasmo. Se oggi sappiamo che per anni chi aveva l'interesse economico di addormentare le coscienze ha foraggiato scienziati, giornalisti, opinion leader, politici, è indubbio che questi mercenari hanno trovato un immaginario collettivo ben disposto a lasciarsi irretire perché cambiare costa e nessuno è disposto a farlo di buon cuore. E questo è tanto più vero se a spingere verso la distruzione ambientale per riaffermare la centralità umana è il paradigma culturale: la religione, il mito del progresso inevitabile, l'idea baconiana del «sapere è potere», il disprezzo per la realtà intesa come brutta copia del meraviglioso mondo delle idee. Questo quadro peraltro si intreccia con problemi decisionali di non facile soluzione, dal momento che la bella rivoluzione dal basso nel segno dell'ecopacifismo auspicata da Arne Naess stenta ad arrivare o resta esangue di fronte agli abusi consumati a Genova nel 2001. Il canone dell'uomo contemporaneo sembra risiedere nella disarticolazione tra la conoscenza di un problema, nel senso delle informazioni che si possono ottenere al riguardo, e la consapevolezza che di questo problema si ha, cercando di capire come il proprio stile di vita incida sulla situazione e assumendo quindi le proprie responsabilità. A questo si aggiunga la confusione operata dai media che consente a ciascuno di scegliere l'informazione che più gli corrisponde, un po' come si cambia canale in tv, o di mantenersi in uno stato di scettica sospensione del giudizio, continuando di conseguenza sulla rotta di sempre. Siamo autorizzati insomma a far finta di niente.

Oltre le soglie dell'autoregolazione

Sappiamo per esempio che milioni di persone muoiono di fame ma non ci chiediamo se il nostro benessere abbia a che fare con questa tragedia né sentiamo l'urgenza di intervenire sulla radice del problema, ossia sul nostro consumo di risorse alimentari, tutt'al più tamponando il disagio della nostra coscienza con il versamento di qualche spicciolo. Nella sua ipotesi di Gaia lo scienziato James Lovelock sostenne che la Terra non è solo un'entità astrofisica ma un vero e proprio macro-organismo dove la vita costruisce le proprie condizioni ottimali e opera per mantenerle all'interno di precisi gradienti.
Ci sono diversi modi per tradurre questo pensiero. Il più sensato è quello di considerare la Terra in base a soglie di autoregolazione: fin tanto che operiamo alterazioni ammortizzabili (tali cioè da non compromettere la funzionalità di Gaia) il macro-organismo è in grado di tenere sotto controllo le perturbazioni apportate al sistema. Ma da questa situazione che in termini tecnici si può definire come «omeodinamica», si rischia però di passare - ammesso che non sia già accaduto - a una situazione «autocatalitica», dove al contrario ogni più piccola perturbazione vede enfatizzati i suoi effetti.
Esiti imprevedibili

In questa ottica, il quadro complessivo è raccapricciante: se infatti oggi le perturbazioni vengono mascherate, mancando un rapporto diretto tra alterazioni apportate ed effetti registrati ci troveremmo di fronte, in caso di compromissione del sistema, a conseguenze esponenziali. Un esempio è il metabolismo dell'anidride carbonica, che entro certi livelli si autoregola attivando il processo di fotosintesi clorofilliana, ma oltre una particolare soglia produce ulteriore emissione di Co2. Eppure l'ipotesi di Lovelock è stata mistificata come un via libera all'attività umana, visto che comunque Gaia è lì a riparare qualsiasi danno. Sorte analoga ha avuto il pensiero della complessità quando ha sostenuto che attivare situazioni caotiche significa rendere un sistema sempre meno prevedibile. La seconda legge della termodinamica o la più popolare legge di Murphy dovrebbero farci capire che l'imprevedibilità dell'evoluzione del sistema non significa che si può stare tranquilli, ma l'esatto contrario. Come si vede, la valutazione dei problemi risente della matrice culturale chiamata a interpretarli: non sono i dati, quantunque allarmanti, a poter operare un'inversione di rotta.