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Che i colloqui di Baghdad abbiano sancito l'inizio della fine?

di Robert Fisk - 14/03/2007

 

Che "la conferenza internazionale sulla sicurezza dell'Iraq" – a cui hanno preso parte alti funzionari dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) più quelli dei Paesi della Regione (Iran, Siria,Turchia, Giordania, Arabia Saudita, Kuwait ed Egitto), e di tre istituzioni internazionali (Onu, Lega Araba e Organizzazione della conferenza islamica) – possa aver rappresentato l’inizio della fine delle disastrose invasione e occupazione della Mesopotamia?

"La conferenza internazionale sulla sicurezza dell'Iraq" dello scorso fine settimana a Baghdad tra, fra gli altri, iraniani, siriani, americani e iracheni potrebbe – questo “potrebbe” è da maneggiare con estrema cautela – aver rappresentato per gli Usa l’inizio della fine delle disastrose invasione e occupazione della Mesopotamia.

Il concitato match tra il diplomatico di Washington David Satterfield e il suo corrispettivo iraniano, Abbas Araghchi, dovrebbero aver fatto capire in modo sufficientemente convincente agli americani che l’esito delle loro negoziazioni è tutt’altro che scontato – oltre al fatto che, inevitabilmente, ci sarà un prezzo da pagare.

Che si tratti della fine della crisi “nucleare” con Teheran? Della rinuncia al processo relativo all’assassinio dell’ex primo ministro Rafik Hariri per il quale in molti accusano la Siria? In ogni caso, a che contropartita l’America è disposta a rinunciare per tagliare la corda dall’Iraq?

Come ad enfatizzare l’anarchia di cui i delegati discutevano a Baghdad, ieri [domenica, NdT] un attentatore suicida a bordo di un’auto si è schiantato contro un convoglio che trasportava pellegrini sciiti di ritorno da Serbala, uccidendone 32. Avendo attraversato indenni i vasti distretti sunniti da Hilla fino alla periferia meridionale di Baghdad, i passeggeri pensavano di raggiungere senza problemi il cuore della capitale. Ma proprio qui li attendeva la minaccia, il micidiale schianto contro una delle sponde dell’autocarro su cui viaggiavano almeno 70 tra uomini e ragazzi. In molti sono morti bruciati vivi.

Curiosamente, è stato il Ministro degli esteri iraniano – piuttosto che il Dipartimento di Sato Usa – a uscire allo scoperto per lodare l’incontro di Baghdad come il primo fondamentale passo verso il ripristino della sicurezza in Iraq. “Lasciando le questioni di sicurezza al governo iracheno, predisponendo una tabella di marcia per il ritiro delle truppe straniere, assumendo un atteggiamento imparziale verso tutti i gruppi terroristi; così pace e tranquillità possono essere ristabilite”, il portavoce degli esteri Mohamed Ali Hosseini ha dichiarato ieri. Un ipotetico secondo round di negoziati – da tenersi o a Baghdad o a Istanbul – è probabile coinvolgerà lo stesso ministero degli esteri iraniano.

Ma le vecchie abitudini sono dure a morire. Durante i colloqui di sabato, a un certo punto Satterfield ha indicato la sua ventiquattrore, sostenendo contenesse documenti che provavano come Teheran stesse armando le milizie sciite in Iraq. L’imprevisto ha scatenato tutto il disappunto del delegato iraniano. “Le vostre accuse sono nient’altro che un tentativo di deviare l’attenzione dai vostri fallimenti in Iraq”, ha tuonato Aragchi.

Gli americani hanno sostenuto per alcune settimane che alcuni ordigni che in Iraq avevano ucciso recentemente almeno 170 soldati Usa e altri militari stranieri erano di fabbricazione iraniana. In realtà si tratta di un’"evidenza" che non prova nulla; l’Iraq è letteralmente inondato dai più disparati armi e esplosivi, e sembra davvero poco probabile che i miliziani sciiti presenti tra i due fiumi abbiano bisogno di qualsivoglia assistenza da Teheran.

In realtà, è l’intera presa di posizione Usa anti-iraniana sull’Iraq che appare priva di ogni fondamento. Si accusa Teheran di interferire nel lavoro del governo iracheno, dimenticando che i maggiori partiti rappresentati nell’esecutivo di Baghdad sono nati e si sono sviluppati in Iran. In altre parole, l’Iran è già “a” Baghdad, e i suoi protetti di fatto stanno già controllando l’area della Green Zone vicino al ministero degli esteri dove si è tenuto l’incontro tra i delegati.

Secondo Zalmay Khalilzad, l’ambasciatore Usa in Iraq, dire che “il futuro dell’Iraq e del Medio Oriente costituisce la questione principale del nostro tempo” equivale a un’ovvietà; in ogni caso, il suo appello a Siria e Iran per sostenere il governo iracheno di Nouri al-Maliki ha suscitato altre richieste da parte di Teheran per il ritiro degli Usa dal paese.

Tutti i paesi confinanti l’Iraq erano rappresentati ai colloqui – Iran, Siria, Giordania, Arabia Saudita, Turchia e Kuwait – così come le Nazioni Unite, la Lega Araba, e anche Russia, Francia, Gran Bretagna, Cina, Bahrein e Egitto.

“La violenza in Iraq non è un bene per nessun paese della regione”, ha ribadito il delegato iraniano Aragchi. “La sicurezza dell’Iraq è la nostra sicurezza, e la stabilità nel paese è una necessità per la pace e la sicurezza nella regione… Riguardo al tema della sicurezza, abbiamo canali che possono essere aperti”. A quali canali si riferisse, Aragchi non ha specificato.

Se da un lato l’Iran sarebbe felice di vedere gli americani ritirarsi dall’Iraq con la coda tra le gambe, dall’altro esiste in merito uno specifico interesse strategico da parte di Teheran. Con le forze Usa presenti in Afghanistan – nonché operanti segretamente in Pakistan – come in Iraq e nelle repubbliche islamiche ex sovietiche, l’Iran è virtualmente circondato dal fuoco a stelle e striscie. Basta inoltre pensare all’imponente flotta Usa nel Golfo Persico e non diventa difficile capire come l’Iran possa ritenersi esposto a rischi analoghi a quelli di cui gli americani hanno percezione in Iraq.

 

Robert Fisk vive a Beirut da trent'anni. Scrive per 'The Independent' e collabora con il sito Counterpunch. Corrispondente dalla capitale libanese per il quotidiano britannico, è uno dei più autorevoli esperti di questioni mediorientali. Ha intervistato tre volte Osama bin Laden.

Fonte: The Independent
Traduzione a cura di Luca Donigaglia per Nuovi Mondi Media