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La guerra in Iraq è nata sbagliata

di Norman Solomon - 24/11/2005

Fonte: nuovimondimedia.com


Una vera opposizione alla guerra deve sfidare l'ottusa forma di narcisismo per la quale la guerra diventa sbagliata soltanto nel momento si realizza che la si sta perdendo. La guerra in Iraq non è diventata sbagliata. Lo è sempre stata 
Il principale problema dell’impegno militare statunitense consiste nel semplice fatto di esistere.

Questa settimana è iniziata con il New York Times che faceva notare che “tutto quello che succede a Washington viene fagocitato dal dibattito sulla conduzione della guerra in Iraq”.

Tale dibattito, che si protrae ormai da molto tempo, rimane un duro colpo per i fautori della guerra di Washington. Ciononostante, lo sforzo di guerra degli Usa continuerà per anni, a meno che l'intero movimento contro la guerra non troverà lo slancio e la forza necessari per fermarlo.

Esiste un proverbio che dice che la guerra è troppo importante per essere lasciata in mano ai generali. Questa affermazione assume un valore ancora più rilevante se viene capovolta: la pace è troppo vitale per essere lasciata ai santoni della guerra e ai membri del Congresso – gente che ha già perso, pesantemente, la possibilità di un ritiro in tempi brevi delle truppe Usa dall’Iraq.

Martedì scorso, una serie di dichiarazioni rilasciate al Congresso Usa da un militare di alto livello ha improvvisamente spezzato il clima di saggezza istituzionale secondo il quale un ritiro immediato sarebbe qualcosa di impensabile. “Il popolo americano ne ha abbastanza di noi”, ha dichiarato il repubblicano John Murtha, concludendo con parole sufficientemente forti da scioccare le élite politiche delle nazioni capitaliste: “I nostri militari hanno fatto tutto quello che è stato chiesto loro di fare. Non c’è niente che gli Usa possano ottenere di nuovo in Iraq con la forza militare. È ora di riportare le truppe a casa”.

La dichiarazione di Murtha ha spezzato un incantesimo. Ma il coniglio bianco del militarismo americano rimane un grosso ostacolo al ritiro di quelle truppe che per l'Iraq non sarebbero mai dovute partire.

Non vi è stata nessuna ripercussione negli uffici editoriali o a Capitol Hill. Fatali forme di opportunismo sono ancora all’ordine del giorno nell’ambito del clima politico e giornalistico creatosi a Washington. Il centro di gravità di questo opportunismo sarebbe potuto esplodere proprio in questi giorni, ma le voci più rilevanti dei media Usa sono ancora pesantemente imbevute della prospettiva enunciata dal presidente Bush domenica scorsa: “Un ritiro immediato delle nostre truppe dall’Iraq avrebbe l’effetto di rafforzare il terrorismo internazionale in tutto il mondo”.

“Il ritiro immediato” potrebbe risultare una definizione inappropriata: Murtha, mentre ne parlava, intendeva un ritiro completo entro sei mesi. Ma Murtha è stato comunque molto più diretto del senatore Russell Feingold, il quale la scorsa estate aveva iniziato ad incoraggiare il ritiro totale a partire dalla fine del 2006 – una posizione che aveva raccolto notevoli consensi nell’ala progressista ma che concretamente appoggiava un ulteriore sforzo delle truppe in Iraq per altri sedici mesi. La posizione di Feingold per un ritiro con scadenza sembra quasi una posizione a favore della guerra se confrontata con la proposta di Murtha.

A Capitol Hill e tra i vari santoni dell’establishment, l’idea è che il fallimento di Bush e della sua amministrazione nel mostrare il benché minimo progresso in Iraq abbia reso la guerra politicamente vulnerabile. Questa linea critica di fatto lascia alla Casa Bianca carta bianca per poter continuare ad affermare che le forze militari Usa e il governo iracheno stanno svoltando l’angolo e possono finalmente guardare “all’irachizzazione” della guerra. L’attuale politica di Washington è sempre più simile a quella “luce alla fine del tunnel” e al quel discorso sulla “vietnamizzazione” che si faceva 35 anni fa.

Se il Pentagono fosse stato capace di sottomettere realmente la popolazione irachena, pochi nel Congresso o nelle pagine dei quotidiani denuncerebbero questa guerra. Come per molti altri aspetti, questo è un altro motivo per il quale le dinamiche politiche statunitensi della guerra in Iraq somigliano sempre più a quelle emerse durante la guerra in Vietnam. Non venendo meno le fondamenta delle prerogative della guerra, una risposta prevedibile è che la guerra doveva essere combattuta con più forza.

Questo è il punto a cui si rifaceva il giornalista I.F. Stone quando, nel 1968, a pochi anni dall’inizio della guerra in Vietnam, scrisse: “È tempo di fermarsi e guardare dove stiamo andando. E osservare anche un po’ noi stessi. Al primo sguardo potremmo facilmente sovrastimare la nostra coscienza nazionale. Una parte della protesta contro la guerra emerge dal semplice fatto che la stiamo perdendo. Se non fosse per i costi esasperanti da sostenere, politici come i Kennedy (Robert e Edward) e organizzazioni come ADA ( i liberali americani per la democrazia diretta) sarebbero ancora a favore della guerra come lo erano pochi anni fa”.

Negli Usa, mentre le bugie della guerra in Iraq diventano sempre più ovvie e la vittoria sembra sempre più irraggiungibile, gran parte dell’opposizione alla guerra si è focalizzata sul tema della morte e del dolore attorno ai soldati caduti. Questa enfasi potrà possedere anche una notevole forza, ma allo stesso può trarci in inganno – il rischio è che la guerra venga definita sbagliata esclusivamente per le ripercussioni che sta portando con sè.

Un possibile rischio è che un ritiro delle truppe di terra possa essere seguito da un numero ancora maggiore di forze aeree che terrorizzano e uccidono con bombardamenti a tappeto (come è successo in Vietnam per parecchi anni, dopo che Nixon annunciò nel 1969 'la dottrina Guam' della vietnamizzazione). Un vero movimento contro la guerra deve sfidare questa ottusa forma di narcisismo che definisce la guerra un problema soltanto nel momento in cui i suoi effetti si ripercuotono sul popolo americano.

Innumerevoli strateghi e innumerevoli politici continuano a rimproverare l’amministrazione Bush del fallimento nell’aver dato vita in Iraq ad una strategia perdente. La guerra non è diventata sbagliata. Lo è sempre stata.

E il problema principale riguardo all’impegno militare statunitense è il semplice fatto che esiste.

 
Fonte:
http://www.alternet.org/story/28570/
Tradotto da Alessandro Siclari per Nuovi Mondi Media