Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Come nascono le idee: strategie della scelta, attenti alle trappole mentali

Come nascono le idee: strategie della scelta, attenti alle trappole mentali

di Pasquale Rotunno - 15/03/2007




La nozione di scelta è stata sempre ampiamente utilizzata dai filosofi, specialmente nella discussione del problema della libertà, ma non è stata altrettanto di frequente sottoposta ad analisi. Il concetto di scelta è strettamente legato a quello di possibilità (giacché la possibilità è ciò che si offre a una scelta) ed è una nota essenziale della libertà. Platone, ad esempio, nella “Repubblica” fa dipendere il destino dell’uomo dalla scelta che ciascuno fa del proprio modello di vita. Aristotele, da parte sua, ha distinto la scelta dal semplice “desiderio”, che è comune anche agli esseri irragionevoli; e dalla “volontà”, perché si possono volere anche le cose impossibili, ma non si possono scegliere. Per Aristotele la scelta è sempre accompagnata dalla ragione e dal pensiero e riguarda solo le cose possibili. Più vicino a noi, a partire da Kierkegaard la filosofia esistenzialistica ha sottolineato il valore della scelta per ciò che concerne la personalità stessa dell’uomo. Dice Kierkegaard: “La scelta è decisiva per il contenuto della personalità: con la scelta essa sprofonda nella cosa scelta e se essa non sceglie, appassisce in consunzione”. In primo luogo è indispensabile determinare il “contesto” delle scelte cioè il campo delle possibilità oggettive in cui la scelta deve operare. A un uomo che ha subito un torto, le scelte che gli si offrono per vendicarsi del suo avversario ricorrendo alla forza o alla violenza sono diverse da quelle che gli sono offerte dal sistema giuridico in cui vive. Inoltre si può distinguere tra “grado” delle scelte, che è il numero delle possibilità offerte da un determinato contesto, ed “estensione” delle scelte, che è il numero di individui che hanno accesso a una scelta determinata in un dato contesto. Il criterio della ripetibilità delle scelte è universalmente adoperato da tutte le discipline.
La filosofia analitica ha indagato in forma rigorosa il modo in cui le scelte sono effettuate o dovrebbero essere effettuate da parte di un soggetto razionale sia individuale sia collettivo: questa disciplina prende il nome di “teoria delle decisioni”. Si tratta di un’area di ricerca interdisciplinare che si avvale dei contributi di matematica, statistica, economia, sociologia, filosofia, psicologia e management. Gli elementi in gioco in ogni scelta sono tre: atti, stati e risultati. Compito dell’analista, che può essere lo stesso agente, è individuare il loro insieme rilevante: considerando i risultati derivanti nello stato presente dagli atti possibili, egli decide sull’atto più conveniente da fare. Alcune scelte sono compiute in modo quasi automatico, mentre altre implicano valutazioni molto articolate e lunghe. Spesso, inoltre, nel corso del processo decisionale capita di farsi idee fuorvianti o false sulla realtà circostante e di commettere errori; soprattutto in situazioni rischiose. È possibile applicare modelli razionali di scelta che minimizzino i costi e i fattori di rischio, ottenendo il miglior risultato? Albertina Oliverio, docente di Logica e filosofia della scienza all’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara e membro del Centro di Metodologia delle scienze sociali della Luiss-Guido Carli, spiega i processi della decisione e i fattori sociali, individuali, economici e psicologici che li determinano nel suo nuovo libro: “Strategie della scelta. Introduzione alla teoria della decisione” (Laterza). Le scelte che ogni giorno compiamo non sono sempre guidate da motivazioni razionali. Ciò riguarda le decisioni dei singoli, ma anche quelle prese da gruppi di individui esperti. Il 28 gennaio 1986 i vertici della Nasa autorizzarono il lancio dello shuttle Challenger contro il parere dei tecnici: quella decisione si trasformò in tragedia. Come fu possibile?
Dagli anni settanta, in una serie di importanti esperimenti sugli aspetti procedurali del giudizio e della decisione, Amos Tversky e il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman hanno documentato diversi casi in cui gli individui violano sistematicamente i fondamentali principi della razionalità. Tali violazioni non possono essere facilmente spiegate con una mancanza di attenzione o di impegno. Per il loro carattere sistematico, esse somigliano piuttosto ad altri errori ben noti, come le illusioni percettive. Tversky e Kahneman hanno quindi suggerito che in molte circostanze tanto gli esperti quanto le persone comuni semplificano problemi relativamente complessi adottando strategie cognitive, dette “euristiche”, che spesso conducono a risultati erronei, cioè significativamente differenti da quelli indicati dai corretti principi formali. Si tratta di errori che conseguono da ragionamenti che mettiamo in atto comunemente, in modo istintivo e automatico, e ciò spiega perché essi siano prevedibili. Queste ricerche hanno indotto molti economisti a prendere atto che spesso nella realtà il decisore si allontana dal modello definito dell’homo oeconomicus o anche della scelta razionale. Tale modello implica una visione della razionalità dell’azione che risale all’economista Adam Smith e agli utilitaristi Jeremy Bentham e John Stuart Mill. Secondo quest’approccio un individuo chiamato a decidere tra diverse alternative sceglierà quella che massimizza la sua utilità. Razionale è quindi la decisione che è coerente con le preferenze dell’individuo e che ne massimizza appunto l’utilità.
Il modello della scelta razionale si colloca nel più ampio paradigma dell’individualismo metodologico. Secondo il quale l’unità di osservazione nella ricerca sociale è “l’individuo dotato di ragione in grado di esercitare una sua autonomia attraverso le decisioni che prende in base a intenzioni, preferenze e valori senza essere ostacolato da determinismi sociali”. Lo studio delle interazioni tra più soggetti ha condotto poi ad elaborare la teoria dei giochi, una branca della matematica applicata volta a comprendere come le interazioni strategiche tra individui sotto forma di cooperazione e conflitto influiscano sui processi decisionali individuali. La teoria della decisione deve, infatti, tener conto delle conseguenze inintenzionali e a volte “perverse” che possono scaturire a livello collettivo e sociale dai “sistemi di interdipendenza” tra comportamenti individuali. Già Bernard de Mandeville, nel Settecento, aveva messo in luce l’importanza delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali. Nella celebre favola delle api – rimarca Oliverio – Mandeville evidenzia in maniera paradossale “l’importanza del ruolo delle componenti microsociali (individuali) nella formazione di esiti macrosociali (collettivi) inattesi”. Con i loro vizi le api dell’alveare immaginato da Mandeville contribuivano alla felicità pubblica. I fenomeni collettivi sono frutto delle conseguenze non intenzionali delle azioni individuali. Più tardi la Scuola austriaca di economia potrà dunque teorizzare che gran parte delle istituzioni umane sono il risultato non intenzionale delle azioni individuali. E il premio Nobel per l’economia Friedrich A. von Hayek indicherà il compito principale delle scienze sociali proprio nello studio degli effetti non intenzionali delle azioni umane intenzionali. Tali effetti sono la diretta conseguenza della fallibilità e dell’ignoranza della conoscenza umana, su cui ha insistito Karl R. Popper. Le nostre scelte non si fondano su un astratto modello di razionalità, ma, come sostiene il sociologo Raymond Boudon, su quelle che ci sembrano siano in un dato contesto sociale e cognitivo “buone ragioni” per compiere un’azione.