India, paradiso dei test clinici
di Patrizia Feletig - 16/03/2007
«Delocalizzare» è di moda. E conviene. Specie se, come in questo caso, si deve testare sugli esseri umani un nuovo farmaco. L'india sta scavalcando Cina e Russia come teatro privilegiato della sperimentazione. I vantaggi? Personale qualificato, masse sterminate di sani e malati. Tutti «poco costosi» Magliette, radioline, software o call center: l'India è una destinazione principe nella delocalizzazione dei processi produttivi delle imprese occidentali. Posizione rafforzata grazie a un nuovo potenziale di sfruttamento: l'outsourcing farmacologico. Nel giro di alcuni anni, il subcontinente potrebbe diventare la più grande clinica di sperimentazione di nuovi farmaci sugli esseri umani. Uno studio condotto della AT Kearney, piazza l'India al secondo posto (dopo la Cina e prima della Russia) tra i paesi in via di sviluppo in cui le multinazionali appaltano test clinici: il 10% già è svolto in India. La tendenza è in ascesa, anche grazie all'abolizione di una legge che limitava i test che le aziende straniere potevano condurre nel paese. Risultato: negli ultimi 5 anni le ricerche sono decuplicate. Nel lungo processo di progettazione di un medicinale, la sperimentazione sull'uomo è il passaggio più delicato e rappresenta il 40% delle spese. Esportandola in paesi dell'Africa, India o Brasile si risparmia fino al 60%. Nel 2006 Merck e Wyeth hanno condotto almeno la metà dei propri test al di fuori degli Stati Uniti, mentre le corporation europee si rivolgono all'Est Europeo. Johnson&Johnson, GSK, Amgen, Bristol -Myers e altre multinazionali hanno aperto filiali indiane per testare cure contro il diabete, l'ipertensione e il cancro. Conscia dei rischi di corruzione e abuso, l'India corre ai ripari. «Si passa attraverso dei comitati etici e si lavora con i CRS centri locali di sperimentazione, per effettuare test in strutture organizzate ben diversi dagli ospedali di 30 anni fa», spiega Ezio Bombardelli della Indena spa, farmaceutica italiana con una testa di ponte in India. Per aziende non strutturate localmente basta una ricerca su Internet per trovare diversi siti come www.flatworlsolutions.com o www.igate.com/icri/ che offrono lo sviluppo di programmi di test clinici su misura interfacciandosi con il sistema sanitario indiano. Entro il 2010, secondo Bain &Co, le spese totali per i trial clinici effettuati in India potrebbero superare due miliardi di dollari. Ad attirare la ricerca medica occidentale in India sono due fattori: disponibilità di personale competente che spesso ha studiato all'estero ma costa poco e, soprattutto, l'abbondanza di «materia prima». Dopo le prove sugli animali, per dire se un farmaco funziona veramente bisogna somministrarlo a un malato seguendo tre fasi. La sostanza è inizialmente testata su individui sani, poi è somministrata a un numero più elevato di individui affetti lievemente della patologia, infine, nella Fase 3, coinvolge migliaia di malati e dura diversi anni. La validità del risultato si gioca quindi sui grandi numeri. Non è semplice radunare cospicui gruppi omogenei di pazienti. Tanto più che oggi occorre dimostrare dei benefici meno macroscopici rispetto a 20 anni fa (ad esempio la riduzione dal 6 al 5% del tasso di mortalità per malattie cardiovascolari) che richiedono campionature di decine di migliaia di pazienti per far emergere i fenomeni più fini. La penuria di volontari occidentali (solo il 3% dei malati di cancro accetta di partecipare a sperimentazioni e il tasso di recesso è molto alto) ritarda notevolmente il varo di nuovi farmaci o addirittura ne pregiudica la commercializzazione. Il «vantaggio competitivo» indiano si misura in 40 milioni di asmatici, 34 milioni di diabetici eccetera, che, combinato con l'ampia disponibilità di volontari, consente risparmi nel reclutamento del 30-40 per cento. E' una popolazione tanto più appetibile in quanto farmacologicamente incontaminata e quindi esente da rischi di interazioni impreviste con altri medicinali. Non è una spropositata fiducia nella medicina a invogliarli ad assumere rimedi non certificati e dagli effetti collaterali incerti. Ricevono denaro e spesso anche assistenza medica gratuita e gli ospedali finanziamenti e apparecchiature. Tuttavia l'outsourcing della ricerca clinica nei paesi in via di sviluppo rimane una pratica controversa. Definiti «cacciatori di corpi» nel libro inchiesta di Sonia Shah (www.soniashah.com), i ricercatori di Big Pharma, sono accusati nel film «The Constant Gardner» di sfruttare l'ignoranza per reclutare cavie umane a buon mercato. Tuttavia, come avvenne con l'outsourcing high tech che creò professionisti di talento e portò strutture all'avanguardia, i trial clinici, se ben condotti, potrebbero rappresentare una fonte di conoscenza privilegiata. Con qualche insensatezza però se, rispetto alle priorità sanitarie nazionali, ci si focalizza su trattamenti per l'osteoporosi o la disfunzione erettile. |