Una sfida alle tentazioni della logica
di Michael Atiyah/Luca Tomassini - 19/03/2007
Intervista a Michael Atiyah
«Molti sono convinti che la matematica si risolva nell'esibire dimostrazioni, ma il suo motore è l'immaginazione, non il cieco calcolo». Un dialogo con il celebre studioso anglolibanese noto per il teorema che porta il suo nome e ha rivelato inattese connessioni tra topologia, geometria e analisi
«Credo che la matematica sia costruita a partire dalla nostra esperienza del mondo esterno». C'è una tensione, una vera linea di frattura, che attraversa la matematica fin dalle sue origini, quella tra intuizione e formalismo, verità immediatamente percepibile e dimostrazione. Un contrasto cui Michael Francis Atiyah - che abbiamo incontrato ai margini del Festival della matematica a Roma - non si è mai arreso, come dimostra la sua straordinaria biografia scientifica. Nato a Londra settantanove anni fa da padre libanese e madre scozzese, cresciuto prima in Sudan e poi nel Regno Unito, è universalmente riconosciuto come una delle più geniali menti matematiche del Novecento. «Per tutta la vita - spiega - ho sempre cercato di costruire ponti», e il celebrato teorema che porta il suo nome (insieme a quello del collega Isadore M. Singer) ha non solo rivelato profonde e inattese connessioni tra topologia, geometria e analisi ma ha avuto un ruolo straordinario nel colmare il divario tra il mondo della matematica pura e quello della fisica teorica. «La matematica - dice ancora Atiyah - comincia con idee generali che diventano via via più precise e specializzate. Durante il XX secolo le sue parti principali sono state affrontate separatamente, con la ben fondata speranza di realizzare progressi più rapidi. Sul lungo periodo questa strategia espone però al pericolo di perdere una visione di insieme, ma oggi per fortuna viviamo di nuovo in un'epoca di sintesi».
Ci può spiegare come giustifica la sua scelta di avversare, nel dibattito sui fondamenti della matematica, un orientamento basato sulla logica?
Molti sono convinti che la matematica si risolva nell'esibire dimostrazioni, dimostrazioni di carattere logico: credo sia un grave errore. È vero, è il cemento che tiene unita tutta la matematica, il suo obiettivo ultimo, ma il mezzo con cui la otteniamo è l'immaginazione, non il cieco calcolo. Non si comincia un lavoro con chiodi e martello, ma con un'idea.
Il calcolo, appunto, viene spesso identificato con l'algebra e contrapposto alla geometria. Anche per lei è così?
Ho sempre avuto un grande interesse per la questione del rapporto tra algebra e geometria. E poiché la nostra percezione di noi stessi e del mondo si articola intorno alle categorie di tempo e spazio, trovo del tutto naturale supporre che esse siano al cuore di questo problema. Per quanto riguarda la geometria, nessuno dubita del fatto che il suo principale oggetto di studio sia lo proprio spazio, come lo percepiamo in un determinato istante. Al contrario, nell'algebra moderna effettuiamo operazioni in una determinata sequenza, una dopo l'altra, nel tempo appunto: è un algoritmo di calcolo, niente affatto diverso da quelli utilizzati da un computer che elabora i suoi dati. Del resto, il pensiero logico-simbolico comporta il passaggio da una serie di assunzioni a delle conclusioni.
Lei ha definito i vantaggi offerti dall'uso del computer come una «offerta faustiana». Quali sarebbero le tentazioni in campo?
Era una provocazione, naturalmente, e ne ho pagato il prezzo subendo un gran numero di critiche. Per capire quale sia il problema torniamo al pensiero geometrico: la sua natura sintetica, intuitiva, è il miglior esempio di ciò che intendo per comprensione. Nella storia della matematica invece l'algebra è nata come un ausilio per il calcolo, la verifica, compito questo che svolge in maniera davvero egregia. Quando facciamo un'operazione algebrica introduciamo un input e smettiamo di pensare al suo significato, semplicemente manipoliamo simboli seguendo regole formali e infine otteniamo una risposta. In mezzo c'è una scatola nera. La scomparsa del desiderio di dare un'occhiata al suo interno è il pericolo che vedo nella diffusione del calcolo automatizzato. Quando ho definito questo fenomeno «faustiano», immaginavo il diavolo mentre si presenta a uno scienziato e gli dice, suadente: «ecco una macchina meravigliosa, basta formulare un problema e lei ti fornisce la risposta. Tutto quello che devi fare per averla è rinunciare alla tua anima, al desiderio di comprendere». Certo, come dimostra la disputa tra Isaac Newton e Gottfried Leibniz, le cose non sono sempre così semplici. Newton sviluppò il suo calcolo infinitesimale per descrivere il movimento dei corpi e in ogni suo ragionamento il riferimento al mondo reale conservava un'importanza centrale. Leibniz era invece un formalista e il suo calcolo era un'algebra molto più semplice da utilizzare. Tra i due, è il filosofo che alla fine ha avuto la meglio: oggi, infatti, scriviamo il calcolo differenziale seguendo la sua notazione. Resta però il fatto che questa scelta non favoriva la comprensione sintetica di tutti gli aspetti del problema. Capire è vedere, tutto insieme e nello stesso istante. Persino nel procedimento artistico possiamo distinguere un aspetto tecnico e uno concettuale, e la tentazione diabolica sta nel considerare solo il primo.
In passato lei ha collaborato all'organizzazione di esperimenti il cui intento era quello di chiarire i fondamenti biologici del pensiero matematico. Ce ne può sintetizzare i risultati?
Alcuni miei colleghi sostengono che per loro ragionare in termini geometrici sia completamente naturale, altri hanno la stessa sensazione riguardo la formulazione algebrica dei problemi. Mi è sempre interessato stabilire se queste inclinazioni avessero un fondamento neurologico e per questo ho cercato di verificare dov'è che nel cervello «avviene la geometria» e dove «avviene l'algebra». La mia ipotesi è che la geometria coinvolga l'emisfero deputato alla visione mentre l'algebra, proprio come il linguaggio, abbia a che fare con l'emisfero specializzato nella percezione del movimento. L'idea era molto semplice: utilizzare tecniche di imaging cerebrale per «vedere» cosa succede durante la risoluzione di problemi matematici. Naturalmente abbiamo iniziato con domande elementari e abbiamo poi verificato che, come previsto, semplici calcoli aritmetici coinvolgono le aree del linguaggio mentre all'opposto problemi più complessi sulla natura dei numeri richiedono l'attivazione dell'altro emisfero. Sono risultati incoraggianti e sono convinto che proseguendo su questa strada nel giro di dieci o vent'anni avremo la possibilità di rispondere a una serie di interrogativi che per secoli hanno impegnato senza successo i filosofi. Se vogliamo capire come pensa il cervello, la matematica è un ottimo punto di partenza.
Eppure importanti filosofi della mente come John Searle ritengono gli strumenti concettuali attualmente a nostra disposizione insufficienti a rispondere a interrogativi quali la natura del pensiero, anche matematico. Lei è d'accordo?
Talvolta un problema può essere così complesso da rendere impossibile una risposta definitiva. Per esempio, cosa è la coscienza? Cosa è il pensiero? Credo che quesiti del genere siano destinati a svanire, a perdere di significato. Per millenni gli esseri umani si sono interrogati sulla natura della vita, oggi ragioniamo in termini di selezione naturale, cellule, proteine, Dna. La domanda si è moltiplicata in tante domande, più specifiche e sofisticate.
Dunque ha un fondamento biologico quella che Eugene Wiegner definiva la «irragionevole efficacia della matematica» nella descrizione scientifica della realtà?
Come le dicevo, la matematica è costruita a partire dal mondo esterno. È poi così sorprendente che sia anche efficace quando si tratta di descriverlo? In fondo, la mente umana è stata modellata dalla selezione naturale, che in qualche modo l'ha resa «compatibile» con la realtà. Ma la nostra esistenza, le nostre percezioni restano confinate a scale macroscopiche e per questa ragione considero sorprendente che la matematica continui a essere applicabile anche al mondo delle particelle elementari. Ma chi può dire qual è la verità? La matematica è veramente uno specchio della realtà o solamente l'immagine che ce ne restituisce il cervello, con tutti i suoi limiti e possibili errori? È proprio ora che la fisica diviene sempre più sofisticata, proprio come la matematica necessaria a descriverla, che le domande poste da Kant tornano di grande importanza. Stiamo sfiorando la natura ultima dello spazio e del tempo o solo costruendo modelli matematici sempre più complicati per adattarli al meglio a quello che osserviamo? I rapporti tra matematica, fisica e realtà continuano a restare un mistero.
Lei ha formulato e dimostrato un teorema che porta il suo nome e che ha trovato sorprendenti applicazioni proprio nel campo della fisica quantistica, influenzando profondamente lo sviluppo della teoria delle stringhe. Ritiene che l'uso sempre più massiccio di sofisticati strumenti matematici stia cambiando la natura della ricerca nel campo della fisica?
La fisica si confronta oggi con domande sulla realtà a scale talmente piccole e energie talmente alte che la verifica sperimentale diventa sempre più difficile, se non addirittura impossibile, e per questo le tecniche che si hanno a disposizione sono per lo più matematiche. Non sappiamo se quelli della fisica odierna siano veri passi avanti nella comprensione del mondo o solo eleganti costruzioni concettuali, ma francamente non vedo alternative all'uso della matematica.
Viceversa alcuni ricercatori hanno messo in discussione il significato della dimostrazione come garanzia della certezza matematica. Oggi esiste persino una rivista dedicata alla cosidetta «matematica teorica», dove sono presentati «teoremi» corroborati da analogie con la fisica. Considera positivi questi sviluppi?
Se un nuovo strumento matematico applicato alla fisica non supera la prova dell'esperimento, non abbiamo alternative a rinunciare al suo uso. Ma se qualcuno partendo da idee fisiche è in grado di ottenere risultati matematici, questi resteranno per sempre. In questo senso la matematica ha tutto da gudagnare da questo rapporto. Molti ricercatori lamentano che le teorie fisiche non sono rigorose ma basate sull'intuizione, ma non colgono l'essenza del problema. Da esse, come è sempre successo nella storia della matematica, vengono suggerimenti, nascono congetture che in molti casi sono state successivamente verificate con altri metodi. Non credo esista il rischio che si possa confondere ciò che è stato dimostrato con quello che non lo è stato.
Nel discorso con cui nel 1995 lasciava la presidenza della Royal Society lei denunciava con parole molto aspre il disinteresse degli scienziati per il crescente «sospetto» che la società nutre nei loro confronti. La pensa ancora così?
Più che mai. Il ruolo della scienza e della tecnologia è enormemente cresciuto negli ultimi due secoli e per questa ragione in una società democratica sono i cittadini che, almeno in linea di principio, dovrebbero prendere decisioni sui finanziamenti alla ricerca. Ma la scienza, specialmente la «grande scienza», è oggi sempre più prigioniera del rapporto con privati, governi e apparati militari che non amano dire alle persone quello che, secondo loro, non devono sapere e i rischi di corruzione intellettuale si sono moltiplicati. Gli scienziati dovrebbero mantenere la loro integrità, senza nascondersi dietro pretesti futili come quello per cui il pubblico non sarebbe mai sufficientemente «educato» per compiere delle scelte. Oggi purtroppo gli scienziati non si muovono così e le conseguenze sono sotto i nostri occhi: il sospetto nei loro confronti è sempre più diffuso.
Tra i suoi numerosi impegni sul fronte pubblico c'è stato anche quello al vertice di Pugwash, un'organizzazione internazionale di scienziati che da più di cinquant'anni si batte contro la proliferazione nucleare. Qual è oggi il suo bilancio?
Dopo la caduta del Muro abbiamo avuto una grande opportunità che per ragioni politiche non è stata colta e oggi la guerra è tornata sulla scena, insieme alla proliferazione nucleare. Sono sempre stato ottimista, ma è difficile esserlo oggi su basi razionali. Mi ricordo che Robert MacNamara, ministro della difesa di Kennedy e poi sostenitore dell'eliminazione delle armi nucleari, mi confidò di essere approdato alle sue convinzioni dopo la sua esperienza nella crisi dei missili a Cuba, quando sembrò che fossimo arrivati molto vicini a un conflitto nucleare. Benché ritenesse questa eventualità effettivamente remota, sottolineava però che una piccola probabilità su lungo arco di tempo può trasformarsi in certezza.