Per una ermeneutica del simbolo
di Anna K. Valerio - 25/03/2007
Beniamino M. di Dario, La Notitia Dignitatum, Ed. di Ar, 2006
PER UNA ERMENEUTICA DEL SIMBOLO
Intorno a la Notitia Dignitatum
Immagini e simboli del Tardo Romano Impero
di Anna K. Valerio
Intorno a la Notitia Dignitatum
Immagini e simboli del Tardo Romano Impero
di Anna K. Valerio
E’, questa nostra, la “terra dei simboli infranti”? O il simbolo non può conoscere oscuramento perché è inscritta nella sua essenza un’efficacia perenne? Questi interrogativi ci propone, fin dalle sue prime pagine, l’eccellente, rigoroso studio che Beniamino M. di Dario dedica alla Notitia Dignitatum (Edizioni di Ar, 2006), libro araldico della Romanità e polifonico compendio di effigi. Di Dario illustra, nel preambolo del testo, le teorie che si sono succedute intorno all’ermeneutica del simbolo. E chiude l’analisi di tale argomento con queste proposizioni, che rappresentano forse il vertice della sua opera:
“Riguardo, infine, alla questione della efficacia del simbolo, non ci sembra improprio definire quest’ultima efficacia connaturata, di tipo ‘sacramentale’: una “effusione di dignità” (nel senso antico di qualità principiali), assicurata non tanto ex opere operantis (ovvero dalla virtù soggettiva dell’operatore: il contemplatore, per lo più modesto osservatore, delle effigi), quanto ex opere operato – ossia dall’oggettivo raccoglimento visivo delle insegne, che permetta il ‘contagio’ dei sensi, la contemplazione dei simboli. Ancora oggi gli ‘emblemi’, le note distintive che compongono la Notitia Dignitatum possono valere da memorandum: come richiami e suggerimenti per la memoria – come una iconostasi che separa, ma pure pone in comunicazione tra loro, gli spazi sacri e profani della realtà.”
Lo studioso nota che un’analisi della validità del simbolo non può prescindere da un ragionamento intorno alla efficacia, alla operatività di questo. Il simbolo, per sua natura, è tale se opera una conversione di forze verso un effetto presupposto dalla natura del proprio disegno. Venendo colto dallo sguardo, esso si introduce nell’universo ideale e ideativo di chi lo osserva, e contribuisce a modificarlo, ad arricchirlo, ad approfondirlo. Il simbolo è, così, un supporto per la meditazione: un diaframma che separa – ma altresì congiunge – il mondo delle verità sovrumane e il mondo delle storie umane. Attraverso l’effigie il vero viene riconosciuto dalla “terra nera” degli uomini (e pure per i simboli si può dire ciò che Nietzsche disse dei libri: ognuno contempla i simboli che già ha contemplato). Il vedere diviene, di lì, un guardare, un impossessarsi dell’oggetto della visione per custodirlo.
Se il simbolo è una idea fatta oggetto, l’occhio è lo strumento che permette l’accesso di essa al suo luogo interiore. Al luogo suo proprio. Il simbolo non è estraneo al cosmo ideativo con cui entra in contatto: anzi, vale a confermarlo. Detto altrimenti: l’effigie permette di alimentare con idee le idee che già si hanno.
Di Dario parla di una “efficacia connaturata” all’immagine simbolica. Ciò è vero tanto per il simbolo quanto per l’universo in cui esso entra e rientra. L’efficacia fa un tutt’uno con l’essenza del simbolo; ma così è anche per la facoltà ideativa dell’uomo, il vero luogo dove l’azione nasce, matura, e acquisisce valore. L’idea è l’azione in stato puntiforme. Il simbolo è l’azione fissata in disegno, di-segnata.
Il punto effonde e disegna la linea. Ma la linea resta punto in ogni sua parte: è punto che si muove. Il simbolo può muoversi – come quella linea - penetrando nel contemplatore, che ne diventa il prolungamento attivo. E su questi piove una “effusione di dignità” (qui, il termine “dignità” o “degnità” è inteso nell’accezione arcaica di “qualità”). Tale emanazione non è, dunque, il frutto di una volontà dell’operatore. Le insegne si raccolgono per essere viste; sono l’idea interiore fatta oggetto esteriore, e permettono il passaggio dal vedere al contemplare al riconoscere (al ricordare). Il simbolo-idea è l’oggetto e il motivo di questa anamnesi di sapore platonico.
Tutto l’alato ragionamento del di Dario muove intorno alla consistenza ‘liminale’ del simbolo, e per sigillare la descrizione lo studioso ricorre all’immagine dell’“iconostasi”. “Iconostasi” è quella parete decorata da icone che, nelle chiese greco-ortodosse, separa il presbyterium dalla zona profana, dove stanno i fedeli: una porta che chiude e che apre. Così di Dario viene al cuore della contemplazione. Che cosa vede l’uomo, nel simbolo? La stessa realtà, fatta a somiglianza di quelle chiese, che vive di una pluralità di dimensioni. La nostra realtà, dove l’hic et nunc convive con la trascendenza, e lo ieri comunica con l’oggi e col domani.