Neuroteologi. Scienziati a caccia dell’anima
di Andrea Vaccaro - 26/03/2007
Azzeccata o fuorviante, propria o inopportuna, la voce «neuroteologia» ha preso il suo campo, con un alone di clamore, scetticismo, stupore un po' avventato. Al contrario della sua eco nel marketing, infatti, questo nuovo tipo di indagine ha area e obiettivi piuttosto limitati, se non addirittura modesti: individuare le aree cerebrali interessate nel soggetto che sta praticando una qualche forma di meditazione, contemplazione o preghiera. Secondo una logica per cui la «neuromatematica» potrebbe essere la ricerca sulle aree del cervello attive quando uno studente si trova dinanzi a un'equazione da risolvere o a un teorema da dimostrare e il «neuroinnamoramento» lo studio delle reti neurali accese quando un fidanzato pensa all'oggetto del suo amore. E come nella neuromatematica l'analisi sarebbe circoscritta all'esperienza soggettiva del matematico e niente potrebbe azzardare sulla natura ontologica dei numeri e delle leggi logiche, così nella neuroteologia ogni espressione sulla natura di Dio e dell'aldilà è prescrittivamente fuori luogo e ingannevole.
L'oggetto è esclusivamente l'uomo, il suo pensiero, la sua esperienza soggettiva. E proprio in questo ambito la neuroteologia impartisce una lezione decisamente importante. Innanzitutto, però, un po' di cronistoria.
Tralasciando sparuti studi dalla lieve risonanza a partire dagli anni '80, il testo con cui la neuroteologia si afferma è Zen and the Brain (lo zen e il cervello) di James L. Austin, che si aggiudica lo «Scientific and Medical Network Book Price» del 1998. Lo studio nasce durante l'anno sabbatico che il neurologo dell'Università del Missouri trascorse nella città di Kyoto, dove ebbe la rara fortuna di essere introdotto alla dottrina zen da Nanrey Kabori, un maestro giapponese in grado di tradurre in lingua inglese i passi sulla via della meditazione buddista. Austin si lasciò trasportare da tale esperienza, fino a ricongiungerla, ad un certo momento, con l'altro motivo di vita non solo professionale: l o studio del cervello. Da qui Zen and the Brain: Toward an Understanding of Meditation and Consciousness (lo zen e il cervello: verso una comprensione della meditazione e della coscienza) che illustra dettagliatamente le «modifiche sostanziali» subite dalle attività cerebrali nelle cosiddette «esperienze picco», quando cioè colui che medita raggiunge gli stadi del risveglio, dell'illuminazione o dell'estasi. Si parla così di desincronizzazione dei bioritmi sonno-veglia, di alterazione dei recettori di acetilcolina nella regione dorsolaterale del cervello, di sovraeccitazione del sistema paralimbico. Si tratta di una ricerca ancora aperta, che non ha resistito all'inevitabile aggiornamento, lo scorso anno, con la pubblicazione di Zen-Brain Reflections (riflessioni sullo zen del cervello) sempre per la Mit Press. E parimenti aperte sono le conclusioni di Austin, solido comunque nella certezza della «natura misteriosa» della coscienza, unica nello scivolare tra le maglie di ogni rete conoscitiva, imprendibile per quegli scienziati e filosofi che, desiderosi di ingabbiarla in schemi riduzionisti, in realtà «hanno finito solo per attaccare nomi un po' grigiastri a molte sue funzioni».
Un anno dopo Zen and the Brain è pubblicato The Mystical Mind (la mente mistica), in cui Eugene d'Aquili e Andrew Newberg dell'Università della Pennsylvania divulgano i dati raccolti in anni di ricerche sul rapporto tra le esperienze spirituali e le dinamiche neurologiche. A Newberg si devono anche diversi articoli scientifici e l'unico testo tradotto in Italia sul tema, Why God Won't Go Away, reso liberamente in Dio nel cervello (Mondadori, 2002). L'approccio di Newberg è serio e rigoroso. Il nucleo centrale consiste ancora nella rilevazione delle alterazioni psicofisiche nel corso dell'ampio ventaglio delle pratiche religiose: mutazioni nella pressione del sangue, nel battito cardiaco, nel ritmo respiratorio, nella temperatura corporea e nelle risposte galvaniche della pelle, nel siste ma dei neurotrasmettitori e nelle funzioni ormonali. Le esperienze mistiche, poi, analizzate con tecniche ancora più evolute rispetto agli strumenti adottati da Austin, manifestano modifiche del tutto singolari della struttura limbica, che blocca il flusso dei dati sensoriali esterni (deafferentazione) e lascia le aree cerebrali dell'orientamento e della percezione del sé prive di limiti e con un senso di infinita pienezza.
Intanto, la risonanza mediatica dell'argomento e il conseguente successo commerciale dava luogo a variazioni sul tema più di richiamo che di contenuto.
Nel 2000, esce The Transmitter to God (il trasmettitore verso Dio) di Rhawn Joseph, un autore che - dopo un percorso capace di associare Ufo, fenomeni paranormali, esperienze di pre-morte, percezione di fantasmi e Lsd - assicura di aver individuato nel sistema limbico la parte del cervello che funge da ricetrasmittente con il divino. Nel 2001, Matthew Alper ribadisce la medesima identificazione in The "God" Part of the Brain (la parte divina del cervello), con al centro l'intuizione - generalmente di età preadolescenziale - secondo cui la fede in una divinità si origina nell'uomo per sconfiggere la paura della morte. Nel 2004, poi, appare The God gene. How faith is hard-wired into our genes (il gene di Dio. Come la fede è collegata via cavo ai nostri geni) del biologo molecolare Dean H. Hamer la cui stupefacente dichiarazione di aver scoperto nel gene VMAT2 il tratto ereditario della fede è largamente mortificato dalla comparazione con un precedente libro, The Science of Desire (la scienza del desiderio), che certificava l'identificazione del «gay gene» o gene dell'omosessualità, un'ipotesi drasticamente smentita dalle verifiche successive. Per il «God gene» si è subito profilato un destino simile e Carl Zimmer sull'autorevole Scientific American suggeriva per il lavoro di Hamer un titolo più lungo, ma più sincero, quale Un gene che giustifica meno dell' 1% della varianza trovata nei risult ati dei questionari psicologici mirati a misurare un fattore chiamato «trascendenza del sé», che può significare ogni cosa, dall'appartenere al Partito Verde al credere nell'ESP, secondo uno studio non pubblicato (in riviste scientifiche) e non ripetuto.
Mettendo tra parentesi questi ultimi titoli e il variegato elenco dei dati neurologici, l'insegnamento importante che la neuroteologia riesce ad impartire sembra appartenere, più che all'ambito teologico, a quello filosofico del problema mente-corpo.
Nella contemporanea filosofia della mente, l'indirizzo maggioritario è così poco disponibile ad accettare che la mente, una volta prodotta dai neuroni, sia in grado di controreagire, influenzando il comportamento dei neuroni stessi, da concludere che questo «violerebbe persino la più debole formulazione del principio di transitività della causazione» (J. Searle) e che quindi «la coscienza non può esercitare alcuna azione causale nel mondo» (G. Edelman).
Le modifiche nelle attività cerebrali che gli stati di meditazione religiosa provocano, però, sembrano dimostrare il contrario. Il mentale, se non si vuol dire lo spirituale, agisce nel cervello e da qui nel corpo e nel mondo materiale. A meno che non si voglia prestar credito alla tesi dell'adattamento evoluzionistico, secondo cui il cervello ha sviluppato questi meccanismi spirituali della fede nell'ottica della sopravvivenza, in quanto essi evitano lo stato incessante d'ansia che il pensiero della morte provoca (M. Alper) e rendono le persone più ottimiste, più in salute e più inclini a procreare bambini (D. Hamer). Battuta per battuta, se un tal genere di selezione naturale fosse reale, la popolazione specifica degli atei e dei materialisti fautori di tale tesi, al pari delle giraffe dal collo breve, sarebbero lungo una temibile via d'estinzione.