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Home / Articoli / I fagiolini solidali. Arrivano dall’Africa e rovinano i contadini dei due continenti

I fagiolini solidali. Arrivano dall’Africa e rovinano i contadini dei due continenti

di Sabina Morandi - 28/03/2007

 

li europei non sono

cattivi ma quando decidono

di aiutarti sanno essere

davvero letali. La battuta

che circola da tempo

nel Sud del mondo si adatta

alla perfezione alla nuova

brillante idea targata Regione

Toscana: un progetto

di cooperazione internazionale

che coinvolge Governo,

Regione, Unione europea,

Coop e Movimento

Shalom per “aiutare” lo sviluppo

agricolo nel Burkina

Faso attraverso l’importazione

diretta dei fagiolini

locali. Il 15 gennaio scorso,

dopo un volo di 4.000 chilometri

dalla capitale Ouagadougou

all’aeroporto Galileo

Galilei di Pisa, i fagiolini

africani sono sbarcati in Toscana.

Da lì, grazie a Coop

G

Italia, vengono distribuiti

in tutti in punti vendita

Coop con il marchio “TerraEqua”.

Secondo l’accordo

siglato con la Scoo.bam di

Kongoussì, una cooperativa

agricola che dà lavoro a

8.000 contadini di 24 villaggi,

Coop Italia si impegna

ad acquistare l’intero raccolto

di fagiolini per cinque

anni: circa 500 tonnellate

pari a un giro di affari di 900

mila euro annui, che potrebbero

crescere fino a

1.500 tonnellate.

Ma questo è solo l’inizio. In

seguito, come si può leggere

nel sito della Regione Toscana,

il «modello di cooperazione

» verrà esteso ad altri

prodotti agricoli e altri

paesi africani come Togo,

Niger, Mali e Ghana, con

l’obiettivo di realizzare una

«cooperazione alla pari che

sappia contribuire realmente

allo sviluppo delle

comunità rurali dell’Africa

senza fare assistenzialismo

e senza che la bilancia penda

sempre a favore del più

forte» tanto per citare le parole

pronunciate dal presidente

della Regione Claudio

Martini durante una videoconferenza

in collegamento

con il Social Forum

di Nairobi nel gennaio scorso.

Si tratta insomma di aggirare

l’annoso problema

dei mediatori «coinvolgendo

direttamente le comunità

rurali e le istituzioni locali

in un rapporto paritario

con le istituzioni italiane ed

europee e con il coinvolgimento

di realtà quali il movimento

Shalom e Coop Italia,

il partner in grado di fornire

know how e l’indispensabile

sbocco commerciale

nel nostro paese, superando

i monopoli ereditati dal

vecchio mondo coloniale».

B

elle parole per raccontare

un’idea apparentemente

geniale ma, in realtà, abbastanza

perniciosa. Non tanto –

e non solo – dal punto di vista

del calcolo energetico che scarica

sulla collettività – sotto

forma delle emissioni di gas

sera prodotte dai cargo – quel

che si risparmia in mano d’opera.

Da tempo le organizzazioni

che si occupano di cambiamento

climatico hanno

trovato un punto di convergenza

con le organizzazioni

contadine sulla necessità di rilocalizzare

i mercati – ovvero

consumare più vicino possibile

al luogo di produzione – se si

vuole sperare di rallentare l’effetto

serra. Attraverso questa

inedita alleanza, praticamente

sconosciuta nel nostro paese,

slogan come “sovranità alimentare”,

“multifunzionalità

dell’agricoltura” e “sviluppo

dei mercati locali” acquistano

un senso nuovo e stringente

mentre, al contempo, gli ambientalisti

spingono per una

disintossicazione dell’agricoltura

intensiva dall’impiego eccessivo

dei combustibili fossili.

Il problema è che la nuova

idea di Martini assomiglia tanto

alla vecchia idea coloniale

anche se i nuovi attori sono di

certo più presentabili dei grandi

giganti dell’agrobusiness.

Ne scrive, in un articolo pubblicato

sul sito www.semionline.

it, Antonio Onorati, Presidente

del Centro Internazionale

Crocevia dal 1988 e agricoltore

lui stesso. «Una quindicina

di anni fa, quando – parlando

dell’impatto negativo

dell’aggiustamento strutturale

sulla sicurezza alimentare

dei paesi saheliani – si voleva

dare un esempio facile da capire

raccontavamo quello che ci

aveva detto uno dei contadini

del nord-ovest del Burkina: “ci

sono alcuni grossi intermediari

che fanno produrre fagiolini

in inverno da spedire in aereo a

Parigi, in sostituzione delle nostre

produzioni tradizionali da

vendere sul mercato interno”».

Qual è la differenza fra la vecchia

pratica neocoloniale e «un

modernissimo ponte aereo

“equo e solidale” per portare i

fagiolini da Kongoussi, nel

Burkina Faso, allo scaffale di

CoopItalia in 36 ore e – cosa sicuramente

più importante - a

un prezzo di un euro più basso

di quello della produzione italiana

per ogni confezione da

750 grammi»?

Si tratta, secondo Onorati, soltanto

di una nuova versione si

quelli che in gergo si chiamano

“contract farming”, cioè contratti

di coltivazione con cui,

oltre a imporre il prezzo, si dice

dove, come, quando e quanto

produrre ai contadini dei paesi

in via di sviluppo che coltivano

i prodotti di controstagione

che, da decenni, ci ritroviamo

negli scaffali dei supermercati

senza che questo abbia aumentato

la sicurezza alimentare

degli agricoltori né il reddito

dei produttori locali. Innumerevoli

studi dimostrano

che le produzioni destinate all’esportazione

hanno un pessimo

impatto sulle economie

locali perché sostituiscono i

prodotti per il mercato locale, e

gli esperti sanno bene che in

zone come il Sahel dove piove

poco, la fertilità è scarsa e le terre

sono limitate, queste sostituzioni

aumentano in modo

esponenziale il rischio di insicurezza

alimentare. Notissimo

è il caso del Kenya, uno dei più

grandi paesi agricoli africani

che, pur avendo raddoppiato

le esportazioni agricole negli

ultimi dieci anni, ha quadruplicato

le importazioni alimentari

e conosciuto in tempi

recenti vere e proprie forme di

penuria alimentare fra gli strati

più deboli della popolazione.

La vera novità, come scrive Antonio

Onorati «sta nel tentativo

– davvero insopportabile – di

attribuire a questa semplice

operazione commerciale di

CoopItalia, che qualunque imprenditore

può compiere legittimamente,

un marchio come

“TerraEqua” che echeggia

giustizia sociale, solidarietà,

equità e sostenibilità ecologica,

trasformando questi valori

in supporto pubblicitario a

buon mercato e rendendo un

pessimo servizio alla sovranità

alimentare del Burkina Faso». I

fagiolini “solidali” rischiano

insomma di consumare la poca

acqua che gli agricoltori

africani hanno a disposizione

e, al contempo, di rovinare i

produttori italiani che non sono

in grado di reggere la concorrenza

di un prezzo così

stracciato.