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Tibet in vendita per dieci miliardi. Una valanga di denaro per seppellire il Dalai Lama

di Francesco Sisci - 28/03/2007

 
Una fotomodella cinese posa davanti all'antica residenza del Dalai Lama
Così la Cina conquisterà
la sua provincia più ribelle

Una valanga di denaro dovrebbe seppellire l’influenza del Dalai Lama e legare indissolubilmente il Tibet alla Cina. Questo sembra lo spirito politico del piano cinese di investire in Tibet ben cento miliardi di yuan, circa dieci miliardi di euro. Una cifra da capogiro, che servirà a realizzare ben 180 opere infrastrutturali da realizzarsi entro il 2010.

Grandi opere
Un primo progetto riguarda l’attuale ferrovia che collega Lhasa, capoluogo del Tibet, al resto della Cina: dovrebbe essere prolungata fino a raggiungere Xigaze, la seconda città della regione. Un’altra importante serie di progetti dovrebbe portare l’elettricità, l’acqua potabile e le linee telefoniche fisse nei maggiori centri della regione, per lo più molto poveri. La gran parte della popolazione di etnia tibetana è infatti dedita alla pastorizia con pecore o yak, e alla pratica di una tradizionale forma di transumanza. Questo pone di fatto i tibetani fuori dal controllo e dalla influenza del governo centrale, che osteggia la continua influenza locale del Dalai, dio-re del Tibet, in esilio dopo una fallita rivolta anti cinese nel 1959. Il Dalai ha chiesto per anni l’indipendenza del Tibet, e se oggi ha rinunciato a queste richieste, continua a volere una larga autonomia per il Tibet e il ritiro delle truppe cinesi di stanza nella regione, oltre a sostenere un sempre più debole governo tibetano in esilio.

Le proteste degli esiliati
L’ingresso di telefoni e elettricità avrebbe come primo risultato quello di avvicinare i pastori tibetani alle trasmissioni della televisione centrale cinese e all’universo delle telecomunicazioni. In maniera indiretta elettricità e telefoni miglioreranno la qualità della vita dei tibetani e dovrebbero convincerli, concretamente, delle buone intenzioni di Pechino nei loro confronti. Tra il 1994 e il 2005 il governo centrale cinese ha investito 63 miliardi di yuan in Tibet, nella speranza di conquistare, attraverso un sapiente uso del portafogli, il cuore dei tibetani. Da sempre i tibetani in esilio accusano infatti la Cina di usare la leva dell’economia per mutare l’ecosistema in Tibet e distruggere la cultura tradizionale della regione. Ed è proprio dagli ambienti degli esiliati che è partita la battaglia contro il progetto della ferrovia, aperta ufficialmente il 1 luglio 2006, l’unico collegamento che per la prima volta unisce Pechino a Lhasa.

L’invasione degli Han
Gli sforzi però hanno dato finora esiti contrastanti. I tibetani, benché più ricchi grazie ai nuovi investimenti cinesi, affollano comunque i templi, e non conoscono crisi nelle vocazioni. Quando Pechino ha limitato il numero delle ordinazioni religiose, i tibetani hanno semplicemente preso a pregare di più e ad aumentare la quantità delle elemosine a scopi di beneficenza. In realtà i lavori della ferrovie, e di altri progetti commerciali sono stati eseguiti in gran parte da manodopera di etnia Han, la maggioritaria in Cina. E sempre cinesi Han lavoreranno probabilmente ai nuovi progetti. In altre parole un numero crescente di Han dovrebbe arrivare a risiedere in Tibet. Questo certo dovrebbe collegare di più l’altipiano al resto della nazione, ma è difficile che metta in minoranza i tibetani.

La stragrande parte degli Han mal sopporta il clima estremo della regione, dove è normale, per chi non vi sia nato, soffrire la mancanza di ossigeno e ammalarsi di patologie polmonari e cardiache. Inoltre la maggiore integrazione del Tibet nel resto Cina aumenta anche l’influenza della cultura tibetana tra gli Han. Come in occidente è oggi di moda la medicina cinese, che ha un che di mitico e mistico, così a Pechino e Shanghai sono di moda medicine e rimedi tibetani, mitici e mistici per gli Han, che costituiscono circa il 95 per cento della popolazione cinese.

Con l’influenza crescente del buddismo in ogni strato della società cinese, il buddismo lamaista, organizzato in una chiesa quasi come quella cattolica, conquista a sua volta influenza in tutta la Cina. I buddha viventi tibetani, i rinpoche, sono rispettati e riveriti a ogni livello della società cinese, anche tra dirigenti del partito, che sempre di più riscoprono la propria sfera spirituale dopo la fine del maoismo militante. L’idea di vincere l’influenza spirituale del Dalai e del lamaismo con il materialismo del denaro sembra persa in partenza. Ma forse c’è anche della tattica. Il Dalai sta male e potrebbe morire tra non molto.

Pechino ha già chiarito di volere guidare lei la scelta del prossimo Dalai. Secondo la tradizione il suo successore si reincarna in un bambino e un gruppo di monaci deve riconoscerlo. Il Dalai ha già detto che la sua reincarnazione potrebbe nascere fuori dal Tibet. Si apre così una fase di disputa religiosa, con un Dalai e un anti Dalai, come secoli fa la Chiesa cattolica aveva in Papa e un anti Papa. Per Pechino si tratta dunque di conquistare quel po’ di fiducia che basta per guidare la scelta del suo Dalai e gettare ombra sull’altro. Cosa c’è di meglio che cominciare rovesciando in Tibet tonnellate di yuan?