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Egitto: formalizzazione di una dittatura "democratica"

di Alessia Lai - 29/03/2007



Non c’è stata nessuna suspense sull’approvazione finale, dopo il referendum svoltosi lunedì, della riforma costituzionale voluta dal presidente egiziano Hosni Mubarak (nella foto). Ma non per l’irrefrenabile smania popolare di sostenere un cambiamento che, a detta del capo dello Stato “rafforzerà la democrazia”, quanto perché tutto lo scrutinio è stato sistematicamente nelle mani della maggioranza politca (come tutte le occasioni di voto da quando Mubarak “ascese al trono” 26 anni fa).
I 34 emendamenti di modifica alla Costituzione del Cairo, votati nella notte tra il 19 e il 20 marzo scorsi, sono stati “democraticamente” sottoposti a referendum appena una settimana dopo la loro adozione da parte del Parlamento. Sei giorni per organizzare una pur minima campagna contro l’approvazione erano certo pochi, di fronte ad una modifica così pesante della Costituzione sono un chiaro segno dell’arroganza del potere. Le irregolarità denunciate da alcune Ong, che hanno rilevato doppi voti o il trasposto degli elettori alle urne in autobus da parte del partito al comando, il Partito Nazionale Democratico (Pnd), sono una bazzecola di fronte ad un impianto che in ogni caso, gestito come è dall’establishment fedele a Mubarak, avrebbe portato ad una approvazione.
Secondo i dati ufficiali resi noti ieri il 75,9 per cento di coloro che si sono recati alle urne hanno detto sì. Ma le cifre sull’affluenza sono discordanti: sui circa 35,6 milioni di elettori che avrebbero dovuto esprimersi, secondo il ministro dell’informazione, Anas al Feki, il tasso di partecipazione sarebbe stato tra il 23 e 27 %, ma esperti indipendenti e Ong come l’organizzazione egiziana dei diritti dell’uomo (OEDH) hanno invece ridimensionato drasticamente la partecipazione al solo 5 % degli aventi diritto.
Secondo Ahmed Ezz, un responsabile del Pnd per la campagna elettorale, il fatto che in molti non si siano espressi si spiegherebbe con un numero troppo basso dei seggi elettorali (9.900), non certo con l’amara constatazione, da parte del popolo egiziano, dell’inutilità di recarsi alle urne.
I partiti all’opposizione, i Fratelli Musulmani, come pure i partiti liberali Al Wafd ed Al Ghad, il cui capo Ayman Nour è in prigione, Tagamoue (marxista) ed Al Karama (nasseriano) avevano invitato la popolazione al boicottaggio. Che sia stato quindi consapevole o frutto della rassegnazione, l’assenteismo alle urne ha caratterizzato questo referendum-farsa che rafforza i poteri già amplissimi della polizia e prepara il terreno per l’ascesa al potere del figlio del presidente egiziano.
Gamal Mubarak, infatti, non poteva certo godere del diritto alla successione come invece spetta, ad esempio, ai discendenti dei capi di Stato giordani o sauditi, essendo l’Egitto, almeno formalmente, una Repubblica dotata di carta costituzionale. Ma dopo 25 anni al potere, fatti di elezioni manipolate, brogli e intimidazioni, papà ha posto rimedio al dilemma: il presidente egiziano ha deciso di dare “finalmente” una base giuridica a quella che è sempre stata nei fatti una dittatura. Il regime assoluto di Mubarak, grazie alla riforma costituzionale, sarà di fatto ereditario, visto che con gli emendamenti approvati viene fortemente limitata la possibilità per i partiti rivali di quello al potere di presentare candidati, mentre è praticamente certo che il candidato del Pnd alle prossime elezioni, nel 2001, sarà proprio il figlio minore dell’attuale capo dello Stato. Bisogna dire che nel mondo arabo quella di rendere anche le forme repubblicane un “affare di famiglia” non è certo esclusiva egiziana. La Siria, ad esempio, ha visto Bashar Assad succedere al padre Hafez. Ma la differenza tra Damasco e il Cairo sta soprattutto nel diverso atteggiamento internazionale: per il mondo delle “democrazie occidentali” quella egiziana è sempre e comunque anch’essa una “democrazia”, almeno nell’accezione che ai giorni nostri le si può attribuire, in cui scossoni come quello appena rilevato riescono appena a turbare i moralizzatori globali capeggiati da Washington; la Siria – ultima Nazione socialista e bastione antimperialista del Vicino oriente - è invece uno Stato canaglia, per essersi opposta all’aggressione contro l’Iraq e perché non tollera ingerenze straniere, statunitensi in primis, nelle sue questioni interne.
Un “doppio standard” emerso chiaramente dall’atteggiamento adottato da Washington nei confronti del colpo di mano di Mubarak. Il 25 marzo scorso, a un giorno dal voto referendario, il segretario di Stato americano Condoleeza Rice, in partenza per il Vicino Oriente, aveva espresso i suoi dubbi circa il processo di riforme intrapreso in Egitto. Ma poco dopo, in una conferenza stampa tenuta a margine di un colloquio col presidente egiziano nella località di Aswan, la Rice aveva glissato, affermando di rispettare le modalità e i canoni culturali dei singoli Paesi e precisando che le sue preoccupazioni riguardavano la consapevolezza del difficile cammino intrapreso dal governo egiziano. La realtà è che, a urne chiuse, le uniche difficoltà saranno quelle degli egiziani, ora ufficialmente “sudditi di sua maestà” Mubarak I d’Egitto.