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Sul buon uso della lentezza (recensione)

di Marco Managò - 29/03/2007




Pierre Sansot, francese, già professore universitario di antropologia e filosofia, è l’autore di un interessante trattato (Sul buon uso della lentezza - Il ritmo giusto della vita, edito da “Il Saggiatore”) volto a celebrare i giusti tempi della vita, di là da qualsiasi esasperazione e ricerca frenetica del “fare” comunque. Un volume interessante, alternato da numerose rimembranze dell’autore, profondamente romantico, in grado di leggere, anche in elementi di per sé neutri e monotoni, significati, suoni e profumi di rilevante introspezione.
Si inizia con l’opportuno rimprovero verso coloro che ostentano la propria vivacità, la propria energia inesauribile, soprattutto nel lavoro, sgomitando a danno dei colleghi più lenti ma non per questo meno efficaci. Uno sgomitio continuo, inoltre, che pone in secondo piano l’opera degli altri e li costringe a inutili rincorse.
La ricerca dell’azione perché necessaria, sconvolge abitudini e personalità, anche quelle dei più anziani, in pensione e coinvolti in mille attività. Sansot non rimprovera il nobile intento dei suoi coetanei, piuttosto riflette sulla possibilità loro, in parte negata, di approfittare maggiormente del tempo libero. Ricorda, così, con nostalgia, tutta quella serie di piccole azioni quotidiane, tipiche della vecchiaia, sia per le donne, a litigare da sole su quale scialle mettere, o per gli uomini, alle prese con un po’ di tabacco e i necrologi sul giornale.
Esperienze e prove si moltiplicano, senza dar giusto peso e valore al contenuto che possiedono ma si alternano in un vortice che ne richiede sempre altre, sino a considerarle e pretenderle infinite. Questa condizione mentale è pericolosa perché, dinanzi all’oggettiva e naturale presenza di un limite, può provocare fastidiose frustrazioni.
“Andare a spasso non significa fermare il tempo... significa che non vogliamo più ispezionare il mondo intero... Avanzare liberamente, lentamente, in una città indaffarata, dare valore solo alla meraviglia dell’istante in una società schiava del mercato...”. Queste alcune riflessioni di Sansot.
L’autore ricorda come la vecchia Parigi, soprattutto di notte, potesse offrire a lui e ai suoi amici, una formidabile opportunità di passeggiare, parlare e riflettere, sulla scorta dei vecchi sofisti greci; le condizioni urbane, modificate nel traffico e nella struttura, non invogliano più a tale introspezione.
L’atto di parlare è molto più ampio e libero di quanto si possa pensare, trovare un interlocutore pronto all’ascolto è condizione ancora più ricercata. L’udire è atto di libertà, anziché di presunta passività, permette di lavorare con la mente per codificare i messaggi altrui e collocarli nella propria memoria. Le nuove frontiere della navigazione in rete, della comunicazione elettronica o con telefono cellulare (e-mail e sms), rischiano di far perdere quella interazione positiva e secolare dell’ascolto e del saper ascoltare. La brutalità e il modo vorticoso in cui relazionano gli individui, esasperano e squilibrano senso e valore del parlare e dell’ascoltare, producendo autorità gerarchica per il primo.
Ogni amicizia ha il diritto alla necessaria decantazione, di sbocciare in modo naturale e poi colmare gli spazi comunicativi reciproci.
Lo spirito, inoltre, ha il dovere di riconsiderare la noia, concepita non già quale sintomo di costante alienazione o insoddisfazione, piuttosto come una positiva componente grazie alla quale riscoprire lati meno noti della propria vita e del tempo libero; occorre rivalutare questi spazi vuoti dell’esistenza anziché adoperarli per capitalizzarli forzatamente.
Per contrastare tale dilagante e ammaliante mediocrità è necessario conferire, per quanto possibile, un potere di scelta della propria noia, del personale modo di perder tempo. I casi estremi riguardano proprio alcuni soggetti, come spiega Sansot “...un osservatore frettoloso avrebbe paura di annoiarsi in un luogo lontano dal lavoro, dalla passione, dall’agitazione. In questo luogo anacronistico l’individuo non si chiede mai come “passare il tempo”.
Il saper attendere permette di dar giusto valore agli eventi, di non bruciarne o anticiparne il corso e le conseguenze; permette di apprezzare il presente e ogni piccolo e parziale obiettivo raggiunto.
A rivalutare lo scorrer saggio del tempo concorre, senz’altro, la provincia, intesa come custode di valori, azioni e oggetti propri di una cultura sviluppata gradualmente, di parole e di apertura mentale e spaziale. Aggraziata e misurata dinanzi anche alle intemperie, a quei piccoli scrosci che ne rugano il viso ma rientrano nella laboriosità locale e quotidiana, di chiusura di case e negozi nell’intimità degli abitanti, lontana dal fragore dei temporali cittadini.
Uno stato d’animo più che una fredda suddivisione territoriale e geografica.
Maggiore predisposizione sociale e cura nei riguardi del prossimo si riscontrano in tali ambienti ristretti, messi a dura prova dagli antivalori provenienti dalla metropoli.
Scrivere è un’arte, una dote che permette di sviluppare, di là da ogni manifestazione di maestria, una efficace introspezione; l’invito alla riflessione si avverte già nella pura e lunga ricerca del vocabolo giusto.
“La lentezza non è il segno di uno spirito privo di agilità o di un temperamento flemmatico. Può mostrarci quanto ognuna delle nostre azioni sia importante e che non dobbiamo compierla in fretta, soltanto per sbarazzarcene”, spiega Sansot.
Il libro prosegue con un interessante elogio del vino, del suo carattere iniziatico che conserva in molte comunità e della giusta moderazione che il suo uso dispone sin dalla tenera età, sin dal primo fatidico bicchiere, pregustato per anni. L’effetto del nettare divino conferisce presto un leggero torpore che invita a saggiare meglio il mondo circostante, rallentando azioni e comportamenti.
Il vino contiene in sé tutto il risultato di una lunga e laboriosa lavorazione che lo porta, con il tempo, ad acquistare le classiche proprietà; un prodotto, quindi, non frutto dell’immediatezza né di un qualcosa di dovuto. A ciò si aggiunga la cura nel riporre alcune bottiglie in cantina per un utilizzo successivo, una speranza affidata a quel liquido così prezioso, un investimento per il futuro. Il romanticismo di questo invecchiamento controllato, e vissuto, si perde nel caso di acquisto di bottiglie già vetuste ma delle quali si sia perso il personale controllo sul passare del tempo, non si conosca la necessaria storia, la lenta maturazione.
La necessità di vivere con moderazione si riferisce alla necessità di acquisire saggezza, senza particolari esasperazioni e barbarie, che permetta e invogli ad assecondare il mondo senza scadere nella mediocrità. Attivismo e anticonformismo sì, da non confondere con frenesia e stress, ai quali contrapporre il sano valore riconosciuto al poco circostante, in attesa di farlo crescere con la propria laboriosità, fisica e intellettuale.
In un mondo di oggetti e azioni immediatamente disponibili, per i quali nulla si sa sulla loro storia, il vortice mutevole impone, purtroppo, una adattabilità forzata e continua, a cui l’individuo è costretto a uniformarsi, pena una selezione della specie oltre qualsiasi immaginazione darwiniana.
Tale accelerazione selettiva e quantitativa investe anche il mondo del lavoro e della produzione, conducendoli verso un traguardo poco chiaro, sicuramente irrispettoso per la personalità del lavoratore considerato mera risorsa materiale.
Frenesia e pretesa di controllare il tempo, questa l’assurda condotta di un’umanità illusa di poter dominare sempre più il mondo, di poterne scandire le stagioni, di non volerne accettare il balbettante inizio o termine.
Un’umanità che, con la fede moderna ha, in ogni caso, eliminato i molteplici nomi affibbiati alla Natura e che, con la scienza, crede di aver imbavagliato il mondo, quando questo conserva ancora moltissimi aspetti sconosciuti e gode di necessaria autonomia.
Viaggiare sull’onda di certezze e di assiomi appare proprio la strada sbagliata per qualsiasi forma di filosofia, dove, invece, è bene predisporsi con la necessaria pazienza, con la coscienza dell’insicurezza, della sorpresa, della costante creatività.
Questa deve essere la molla fondante della moderna cultura, senza alcuna esasperazione o materializzazione della stessa. Spiega Sansot: “Abbiamo voluto rendere giustizia a una cultura del quotidiano, ma l’abbiamo costretta a seguire il modello della cultura “nobile” e le abbiamo inflitto lo stesso trattamento.
Non ci è bastato colonizzare culturalmente lo spazio. Abbiamo preteso di colonizzare, in maniera altrettanto indiscreta, anche il tempo”.
L’affannosa ricerca alla cultura permanente e assoluta, comporta un devastante squilibrio per l’incauto apprendista totale. La cultura, vissuta come un obbligo, e non già come un diritto, anziché emancipare l’uomo lo imbriglia verso una mera direzione quantitativa, di un sapere non assimilato ma convenzionale e ostentativo. Partecipare a tutte le iniziative culturali del mese, tenersi ineluttabilmente al passo di ogni iniziativa, significa disperdere inutilmente le energie anziché dosarle per una opportuna selezione, scevra dal conformismo, dal seguire acriticamente le imposizioni commerciali della cultura.
La stessa infanzia, verso la quale prodigare l’interesse per la lettura, non deve essere sommersa da tale esigenza, contemplando anche l’eventualità del tempo libero, del gioco, del tempo perso...
L’urbanistica sfrenata ed esasperata non concorre alla riscoperta o alla tutela di quei luoghi inattivi, nel quale disperdere qualche ora contemplativa del proprio preziosissimo tempo. Anziché avvalorare la semplicità di un viale, di scoprirne i segreti passeggiando senza meta, si celebra una ambigua socialità nelle attuali cattedrali del consumo: quei centri commerciali dove la modernità conquista le menti di coloro che non vogliono essere tacciati di anacronismo. Cattedrali che fermentano di alacrità, di movimento, rumore e che, di sera, ripiombano in uno spettrale silenzio senza anima né corpo.
Iniziazione commerciale che trova la propria sublimazione, dopo l’imprinting dei muri tappezzati di pubblicità, nella concitata corsa all’acquisto.
L’effimero e il vacuo si celebrano in una vacatio di socialità che pure dovrebbe trovar sfogo nelle moderne città imbottite di risorse umane, pronte a incrociarsi, a sgomitare ma non a sfiorarsi, a cogliersi. Non ci sono più tempi e spazi per celebrare piccoli e semplici avvenimenti quotidiani e per riscoprirne la comunicatività.
L’attivismo fisico e intellettuale, italico ed europeo (celebrato anche dal futurismo) perde, quindi, d’ogni valore per rivestirsi di superficialità, omologazione e vacuità tipici di tradizioni di allogena provenienza. A volumi come quello di Sansot, assestato di vita (vera) per presentarsi “vivo” alla morte, il compito di smascherare tale incongruenza e contraddizione dei tempi moderni, destinata alla naturale implosione contro ogni tentativo di perpetuità.