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Apologia dell'orto

di Paolo Petralia - 29/03/2007

 


Ho abitato 20 anni nella periferia chic romana in mezzo a gioiellerie e negozi di vestiti da gran signori da cui facevano avanti e indietro i giocatori della Roma, tutti abitanti in zona. Ho abitato altri dieci anni in una zona più centrale di Roma, ma altamente più popolare; il quartiere era decisamente più divertente del primo, ma essendo l’abitazione un metro abbondante sotto il livello della strada con vista sui pneumatici delle macchine parcheggiate davanti alle finestre, oltre a farmi una cultura sul tipo di gomme montate dagli italiani, all’undicesimo anno mi ero abbastanza rotto le scatole di questa situazione. Forte del rapporto ormai epocale con la mia socia Alessandra, decido di lasciare la metropoli e le sue affascinanti gomme, per destinazione litorale laziale, 60 km a sud dalla metropoli. Dire di “abitare in campagna” non è proprio veritiero, perché questa campagna la condivido con almeno un 60mila coinquilini durante l’anno e più o meno il doppio durante l’estate. In quei due mesi di caldo è un po’ come se il vecchio quartiere popolare mi venisse a trovare, in blocco. Nei primi due anni di litorale laziale, ci siamo sobillati a vicenda con il suocero ed abbiamo coltivato come assassini nel suo pezzo di campagna, di nome e di fatto, ad un paio di chilometri da casa; in maniera così sistematica da non fare alcuna spesa vegetale, almeno durante l’estate. In tempi recenti, in nuova sistemazione abitativa, che finirà di pagare mia nipote, ho convertito un simpatico retro-giardino in orto a tutti gli effetti. La cosa buffa è che per un totale di 12 villette a schiera, ben in 4 ci siamo dati al pollice verde in chiave vegetale. Io, ovviamente, sono quello più giovine, probabilmente con la metà degli anni sulla groppa, rispetto agli altri. Temo che gli altri trentenni giudichino l’avere un orto come una cosa un po’ retrò, mentre lavorare/esser pagati in denaro/andare al supermercato è una grande conquista sociale dell’umana specie. D’altro canto, tra il vicinato, un paio di geni hanno cementato quasi totalmente il retro-giardino. Ad ogni modo, nel mio desiderio di lasciarmi alle spalle la città, aiutato da un lavoro indipendente in cui rivesto tutte le cariche possibili da fattorino a presidente universale con pianta di ficus, il desiderio di coltivarmi da solo quello che normalmente mangerei, rivestiva una certa priorità. In questo momento di bizzarri fenomeni climatici, siamo in Novembre 2006, ho appena finito il raccolto di pomodori e melanzane. Dietro alle melanzane svettano broccoli siciliani, cavoli classici, cavolo cappuccio, quello rosso per intenderci, cavolo nero toscano, insalata canasta, insalata riccia, broccoletti ad ombrello (che i locali chiamano “minestra napoletana”), gli ultimi peperoni, peperoncini piccanti, carciofi allo stato embrionale, finocchi, corabi (una rapa che per strane questioni economiche viene coltivata qui e spedita in Germania…). Questa estate il raccolto di pomodori ciliegini e da insalata è stato a dir poco incontenibile, bene sono andate le zucchine, mentre sulla dozzina di barbabietole rosse piantate, sono riuscito a mangiarne una sola. Ovviamente non manca una riserva fresca di salvia, timo normale e al limone, prezzemolo, basilico, origano, rosmarino, maggiorana. L’erba cipollina invece ha avuto vita breve; è perita insieme al prato, sotto le lame della falciatrice per mano del suocero non ufficiale. In un tempo di velocità e cambiamenti, veder crescere un finocchio giorno per giorno per un paio di mesi, fino a che ha raggiunto una discreta dimensione per stare in un piatto, è una cosa confortante. Probabilmente i finocchi del supermercato ci hanno messo solo tre settimane prima di finire nel piatto. La cura dell’orto ovviamente investe tempo, ma penso che sia molto meglio dare una salutare zappata che starsene in panciolle insieme al televisore. Certo, se lo vedete da un punto di vista strettamente economico, un’ ora di zappata non è paragonabile a livello di remunerazione e conseguente giro al supermercato. Ma grazie al cielo non bisogna sempre guardare in un ottica strettamente economica tutto quello che si fa. Attraverso la cura dell’orto posso dire di esser riuscito ad avere un rapporto migliore con la natura in modo diretto ed indiretto. Adesso vermi, cavallette, bruchi, mantidi, lumache e compagnia strisciante mi fanno sicuramente meno schifo di prima. La nostra convivenza intorno alle MIE verdure è abbastanza tollerabile. Ho ancora un terrore spropositato di qualche serpentello, ma i nostri incontri sono veramente sporadici per mia fortuna. Occuparsi direttamente di quello che finisce poi nella propria tavola, significa rendersi conto che ogni ortaggio ha delle stagioni più o meno precise e se i pomodori sono al supermercato in ogni periodo dell’anno, beh, c’è qualche cosa che non va. Oltre alla questione stagionale, coltivando ci si accorge che la perfezione del reparto ortofrutta non è cosa naturale; le carote di mezzo metro senza bitorzoli e le zucchine dritte che sembrano manganelli di bobbies inglesi, sono specie degne di X-files. Avere a disposizione un orto consente di evitare parte della grande distribuzione, gli spostamenti che facciamo noi per andarci e quello che verdura/frutta compiono per arrivarci, coadiuvate dai tir che incontriamo sulle autostrade. Consente di evitare l’uso di imballaggi solitamente poco economici. Consente di sbarazzarsi di rifiuti organici in modo naturale, ossia restituirli alla terra da dove essi provengono. Perché è abbastanza folle quando uno ha a disposizione della terra, buttare i rifiuti organici nella pattumiera. Magari non è proprio il mio caso perché in effetti curando 60m2 di terra non è che salvi il mondo, ma comunque curare un orto significa prendersi cura in qualche maniera della natura. Sembrerà paradossale, ma delegare l’acquisto di frutta e verdura al signor supermercato è anche legittimarlo all’uso di qualsiasi pesticida, insetticida, concime chimico, antiparassitario, ad un uso smodato dell’acqua da irrigazione, ad un inquinamento idiota di materiali plastici (andatevi a fare un giro per qualche campagna coltivata industrialmente, in cui i cestelli delle piantine in polistirolo od i teli neri per la coltivazione, vengono non solo utilizzati una sola volta, ma la cosa folle è che vengono bruciati…); occhio non vede e cuore non duole, dice il detto popolare. E ciò non è che vada tanto bene… Curare un orto è in antitesi con chi paga la gente per stare nei campi piegati 12 ore a 2 euro l’ora e li schiavizza, nonché con chi chiude gli occhi su coloro che pagano la gente per stare nei campi piegati 12 ore 2 euro l’ora e li schiavizza. Avere un orto rinsalda i rapporti pesudo-familiari e di buona vicinanza. Quando i finocchi sono troppi (perché ovviamente maturano insieme, e giunti alla seconda settimana di finocchi pranzo e cena, vorreste che la loro specie venga estinta immantinente…) li si regalano al parentado o ai vicini più prossimi. Se poi il vicino più prossimo ha anche lui un orto, il gioco degli scambi in natura non finisce mai. Entrare in un giro di amicizie/parentele che coltivano la terra in piccolo o in medio-grande, significa andare avanti a suon di scambi e regali, cosa che in altri campi non accade o accade molto di rado. Magari può sembrare un regalo privo di valore o quasi, ma tagliare il proprio cavolo e donarlo, dopo averlo piantato, curato, zappato, annaffiato e visto crescere è come donare una parte di te stesso. In realtà è un regalo che in termini di fatica costa molto più di qualcosa acquistato a mezzo apertura portafogli. Occuparsi di un orto è stare all’aria aperta, azione che di questi tempi si svolge quasi unicamente in funzione del mesto sciopping. Significa fare un minimo di esercizio fisico, per di più senza pagare alcuna palestra e istruttore. Un orto invoglia gli augelli a tornare in zone cementate, ormai senza più verde. Se poi si mangiassero i bruchi sui miei broccoli, sarebbero ancora più benaccetti. Ok, la pianto qua, mi auguro di aver instillato qualche voglia in voi lettori, ammesso che qualcuno sia arrivato fino a questa ultima riga. Adesso vado a levare un paio di finocchi…