Quello che il governo non vuole dire sull’Afghanistan
di redazionale - 30/03/2007
Militari italiani impegnati in missioni di interdizione contro i talebani
Kabul. L’ennesimo ferito, fortunatamente
lieve, tra le forze speciali italiane impegnate
nell’Afghanistan occidentale ripropone
gli eufemismi amari della versione ufficiale
dei fatti. Come in tutti gli altri casi di
attacchi alle truppe italiane, anche questa
volta si è trattato di “elementi ostili” che
hanno rotto la tranquillità del pomeriggio
afghano aprendo il fuoco su militari impegnati
in un “normale pattugliamento”. Inutile
infierire sulle note di linguaggio imposte
ai comandi dalla politica, assieme alle
altre regole. Tutte con l’obiettivo di tenere
lontani i giornalisti dalle basi militari e, in
caso di caduti o feriti, di minimizzare.
I dettagli su tutte le consegne di viveri,
quaderni, penne e giocattoli nelle scuole e
negli orfanotrofi di Herat sono diffusi con
facilità, e mai invece le notizie concrete
sull’impiego reale dei reparti. Eppure le
forze speciali, che hanno avuto almeno tre
contatti a fuoco con il nemico soltanto negli
ultimi giorni, sono impiegate per operazioni
di ricognizione a lungo raggio e soprattutto
di controinterdizione. Vale a dire che
gli incursori del 9° reggimento “Col Moschin”
dell’Esercito e del Gruppo Operativo
Incursori della Marina (reparti che hanno
avuto entrambi un ferito nell’ultima settimana)
sono occupati di trovare e annientare
le forze talebane penetrate da sud nel
settore assegnato al Regional Command
West guidato dal generale Antonio Satta.
A Herat è stato allestita la base di un Task
Group di forze speciali di circa 200 effettivi,
il più grande dai tempi dell’operazione
Ibis in Somalia. Accanto agli incursori ci
sono ranger del 4° reggimento e squadre
del 185° reggimento acquisizione obiettivi,
che si occupano di presidiare posizioni occultate
vicino alle vie di comunicazione per
segnalare il passaggio di forze nemiche. Come
al solito, non è data notizia alcuna sull’esito
dei combattimenti o sul numero di
talebani uccisi dai nostri incursori. Lo stesso
generale Antonio Satta, intervistato su
un episodio simile, ha dichiarato giorni fa:
“Era buio, non siamo in grado di dire quali
danni abbiano subito gli aggressori”. Tuttavia
numerose fonti, italiane e alleate, confermano
anonimamente che gli italiani –
soprattutto le forze speciali – hanno affrontato
combattimenti in molte occasioni soprattutto
nella provincia di Farah dove dal
settembre scorso si registra una crescente
presenza talebana (che ha subito un ulteriore
incremento nelle ultime settimane a
causa dell’Operazione “Achille”). Premendo
da sud e da ovest, le truppe anglo-americane,
canadesi, olandesi e governative afghane
stanno spingendo il nemico a cercare
scampo nel settore italiano con penetrazioni
crescenti a Farah, nella provincia di
Ghor e nella parte meridionale di quella di
Herat, proprio a Shindand, dove infatti si è
verificato lo scontro a fuoco di ieri.
Le nostre forze speciali
Per le forze speciali italiane, affiancate a
Herat da un reparto americano, l’impegno è
reso ancora più gravoso dalla carenza di reparti
di manovra, unità di fanteria impiegabili
dove necessario. Fonti ad alto livello ritengono
improbabile che, nella valutazione
sui rinforzi da inviare a Herat, il governo accetti
di includere reparti di fanteria, mortai
pesanti e unità di cavalleria dotate di blindo
Centauro. Mezzi e truppe utilissimi sul
piano operativo (basti pensare che sono
schierati persino in Libano dove il mandato
dell’Onu ne impedisce di fatto l’impiego) ma
che determinerebbero un aumento delle
forze italiane schierate nell’ovest afghano
pari ad almeno il 50 per cento, da mille a
1.500 effettivi. Evidentemente troppi da giustificare
sul piano politico senza ammettere
che i nostri partecipano, combattendo, alla
guerra. Inoltre tali rinforzi consentirebbero
a Satta di disporre di una forza di manovra
con ampie capacità, che potrebbe invogliare
gli alleati a chiederci di impiegarla in
operazioni congiunte. Per il governo, il modo
migliore per garantire il mantenimento
dei “caveat” nazionali – evitando al tempo
stesso imbarazzanti no agli alleati – rimane
non schierare le forze necessarie. Anche se
questo significherà aumentare i rischi per i
nostri soldati, riducendone l’efficacia.