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Non crocifiggete Pilato

di Stefano Di Michele - 31/03/2007

 

Mistero e leggende di un procuratore di provincia sulle cui spalle è caduto tutto il male del mondo

“Nell’anno decimoquinto dell’impero

di Tiberio Cesare, essendo Ponzio Pilato

governatore della Giudea…”.

(Luca 3, 1)

Probabilmente fu così che andò. Due

vecchi che parlano davanti al mare.

Due vecchi malati, stanchi, svaniti. Forse

con qualche ricordo, certo senza fede.

Così come l’immaginò Anatole France.

“‘… Si faceva chiamare Gesù il Nazareno,

e fu crocefisso non ricordo per

quale delitto. Ponzio, ti ricordi di quest’uomo?’.

Ponzio Pilato aggrottò le sopracciglia,

si portò la mano alla fronte

come chi vuole ritrovare un ricordo.

Poi, dopo qualche istante di silenzio:

‘Gesù? – mormorò – Gesù il Nazareno?

No, non ricordo’”. Tutto verso il nulla, la

fine della vicenda terrena del quinto

procuratore della Giudea. Prima, resta

solo un’iscrizione su una pietra,

“(PON)TIUS PILATUS (PRAEF)ECTUS

IUDA(EA)E”; dopo, solo la destituzione

in seguito all’eccidio dei samaritani sul

monte Garizin. E al centro di tutto quella

domanda: “Cos’è la verità”, e quei

giorni di Pasqua a Gerusalemme, fuori

e dentro dal pretorio. Sua moglie Claudia

Procula ha gli incubi, sogna di pesci

e di agnelli, e della sorte di un Giusto,

dice, che suo marito il procuratore di

Roma ha nelle sue mani. Non fosse finito

nel Credo, “fu crocifisso per noi sotto

Ponzio Pilato”, dopo essere finito nei

Vangeli, nessuno ricorderebbe oggi il

suo nome. Una crocifissione da decidere,

una delle tante. Migliaia ce n’erano

state in passato. Un messia, uno dei tanti

che regolarmente spuntavano dai deserti

lì intorno, venivano con la polvere

e con la polvere andavano. Un uomo in

croce, laggiù in quel posto dove l’ambizioso

Pilato era andato e dove alla fine

era rimasto imprigionato e dimenticato

– in balia del fanatismo locale e dei feroci

umori di Tiberio – non faceva molta

impressione, né risultava metafora di

niente. Si può quasi immaginare il mediocre

procuratore lassù – alto sulla fortezza

Antonia, roccia di cinquanta cubiti

all’angolo della spianata del Tempio

– la toga da magistrato romano agitata

dal vento (“un mantello bianco foderato

di rosso”, così lo immagina Michail

Bulgakov), la polvere che corre incontro,

le voci che salgono e diventano urla.

Città odiosa doveva apparirgli Gerusalemme,

nei giorni della Pasqua ebraica.

La folla premeva, ogni predicatore

pazzo emergeva, i rischi di rivolta s’ingrandivano.

Migliaia e migliaia di

agnelli sgozzati e piangenti, e l’odore

del sangue e della paura arrivava fin

lassù, all’odiato procuratore che a sua

volta odiava gli ebrei. Così era, la sera

prima del 14 del mese che è chiamato

Nisan. Quando la storia di Ponzio Pilato

e quella del mondo sta per cambiare.

A dar retta alle leggende, ai rari

frammenti, alle mille voci, Pilato e la

morte si sono sempre guardati in faccia

per tutta la vita. Dicono che uccise il

suo fratellastro, dicono che poi uccise

uno straniero. Dicono che cercò di uccidere

un poeta che ironizzava su una statua

del prefetto Seiano, il suo protettore.

Dicono che forse fu il sicario che uccise

Pisone, legato di Siria, sempre per

volere di Seiano. Poi quel Nazareno in

croce, di cui secondo France non ricordava

neppure il nome. Poi Seiano fu fatto

uccidere dal Senato per ordine di Tiberio

(che lo salutò durante l’ultimo incontro

con queste parole: “Metà di me

stesso se ne va con te”), il corpo ridotto

a pezzi, letteralmente. Poi l’eccidio dei

samaritani che lo costrinse a tornare

verso Roma, per sparire da ogni certezza

storica nel momento dell’approdo a

Ostia e diventare l’ambigua leggenda

che ancora è – tra il vile, l’assassino e

persino il santo. “La sua corruttibilità e

violenza, le sue rapine, i suoi maltrattamenti

e umiliazioni, le continue sedizioni

senza processo, come pure la sua

ininterrotta e insopportabile crudeltà”,

secondo il filosofo Filone di Alessandria.

Eppure, per Tertulliano Pilato era

“già nella sua coscienza cristiana” nel

momento in cui lì nel pretorio si trovò

faccia a faccia con l’uomo che gli chiedevano

di mettere in croce. Nel Vangelo

di Luca “raccontarono di quei galilei

il cui sangue Pilato aveva mescolato a

quello dei loro sacrifici”, per re Agrippa

I era “rigido, crudele e cattivo”. Ma

Ernest Renan, nella sua “Vita di Gesù”,

ha un’altra opinione: “Tutti gli atti di Pilato

a noi noti lo mostrano come un

buon amministratore. Nei primi tempi

della sua carica, sorte difficoltà con i

suoi amministrati, le aveva troncate in

modo feroce; ma sembra che in sostanza

avesse ragione”. Altra “Vita di Gesù”,

quella di Francois Mauriac: “Pilato

battè in ritirata, cercando di salvare

l’innocente da quegli infuriati”. Ci sono

anche delle biografie scritte da italiani

sul procuratore della Giudea. Quella di

Massimo Centini, “L’uomo che uccise

Gesù” (edizioni Ananke), lo raffigura così:

“Lo stanco Pilato, che suo malgrado

fu costretto a passare alla storia come

uno dei carnefici di Cristo…”. E quella

di Ottorino Gurgo, “Pilato” (Rusconi

editore), ne fornisce anche una descrizione

fisica: “Era brutto: basso, calvo,

grassoccio, la pelle unta, lo sguardo

sfuggente, le mani piccole e tozze”. E

poi, mille altri giudizi: vile, pauroso, indeterminato,

sospettoso, feroce… Scrive

Roger Caillois nel suo “Ponzio Pilato”

(Einaudi), suggestivo racconto che sceglie

infine per il procuratore un destino

meno turpe di quello consegnato alla

storia: “Sapeva di essere vile, ma celava

in sé, tenace, quella fascinazione della

giustizia ch’egli subiva senza aver la forza

di trasformarla in virtù militante”.

Eccolo, dunque, il procuratore della

Giudea. Vive oscuro, sotto un sole che

acceca, una polvere che chiude la gola,

un senso di nulla che dà la vertigine.

Bulgakov lo immagina in preda a feroci

mal di testa, “oh numi, numi, perché

mi punite?… Sì, è lei, sempre lei, la malattia

orrenda, invincibile…”. Solo uno

sputo sulla grandezza di Roma, quel

lembo di terra infuocata. Pilato, giunto

nel 26, pensava fosse la tappa iniziale

di una grande carriera, ora sa che è solo

la fine. Dispiace a Tiberio, quel procuratore

che pensando di far bene a

Roma ha prodotto molti mali, e che

l’imperatore stesso ha costretto a umilianti

retromarce nelle sue dispute con

gli ebrei, come quando innalzò gli scudi

con l’effige di Cesare e Roma gli ordinò

di rimuoverli. Claudia quasi delira,

Tiberio ha già la mano sulla sua gola,

il Sinedrio di Caifa – e di suo suocero

Anna – trama, Erode Antipa fa la

spia per conto dell’imperatore, il legato

di Siria Vitellio lo detesta, folle manovrate

assediano la fortezza Antonia,

ciechi e sciancati avanzano verso il

Tempio cercando il miracolo, l’illusione

di intravedere l’angelo del Signore

che li avrebbe salvati. Forse, più tremendo

di una religione di fanatici sono

solo dei fanatici in attesa di un messia.

E sadducei e farisei e scriba ed esseni

e zeloti… Disprezza tutto ciò che il suo

occhio raggiunge, il procuratore. E’ sicuro

che con gli ebrei che governava fu

spesso feroce, sempre sprezzante. A

Roma, giovane in ascesa, leggeva Cicerone

sulla razza “abietta e presuntuosa”,

si dava credito al greco Apione che

spargeva veleni e raccontava degli

ebrei che rapiscono i giovani greci, li

ingrassano, li immolano ai loro dei e ne

mangiano le interiora. Odiava ed era

odiato, laggiù in Giudea, il procuratore

Pilato. Parla così quello di France:

“L’intrigo e la calunnia hanno spezzato

la mia vita quando era in pieno fiore e

hanno fatto inaridire i frutti che doveva

maturare”. Scrive Massimo Centini

che “non fece nulla per rendersi benvoluto”.

Annota Ottorino Gurgo: “Forse,

se fosse stato più intelligente, il procuratore

avrebbe capito che a prendere

di punta i Giudei rischiava di fracassarsi

le ossa. Ma intelligente Pilato non

era. Testardo sì, e molto. Intelligente,

no”. Pieno di risentimenti, certo sentiva

le voci dei profeti rimbombare per

le strade di Gerusalemme, “infrangere

l’orgoglio dei peccatori, come vasi di vasaio”.

La Giudea è dunque uno sputo,

un pulviscolo sulla corazza d’oro di Roma.

Dentro quello sputo e in quel pulviscolo

annaspa e si perde Ponzio Pilato.

Eccolo nell’immaginario di Roger

Caillois: “Il fatto è che non era un funzionario

zelante. Era ottimista per pigrizia,

mentre all’uomo politico conviene

esserlo solo per calcolo… L’ottimismo

di Pilato non era tattico, ma scaturiva

spontaneamente dal suo orrore

per le complicazioni”. Quella parte dell’impero,

certo la parte più complicata

dell’impero tutto, si trovava dunque

nella mani di un uomo che odiava ogni

complicazione. E che si sentiva dimenticato

e forse era anche impaurito.

Che poi, non durò neanche poco Pilato

come procuratore (pure se la definizione

esatta sarebbe quella di praefectus,

come è scritto sulla pietra con il suo

nome). Parecchio più di alcuni suoi predecessori.

E quando fu rimosso con lui

uscì di scena anche il sommo sacerdote

Caifa, e dunque Pilato ebbe una certa

abilità nel restare a galla per dieci anni

in quel pantano politico-religioso, e

qualche intesa con Caifa doveva averla

trovata. Solo per la festività della Pasqua

Pilato si trovava a Gerusalemme,

essendo la residenza ufficiale del procuratore

di Roma quella di Cesarea Marittima,

città molto più calma, con meno

tensioni religiose. E soprattutto in riva

al mare, dove una nave era sempre

pronta per portare in salvo il procuratore

nel caso – per nulla irreale – di una

rivolta nonostante le cinque coorti di

fanteria, cinquecento uomini ciascuno,

e una coorte di cavalleria. Ma ora a Gerusalemme

è l’alba di venerdì 14 di Nisan,

e l’oscuro procuratore della Giudea

sta per debuttare nella storia dell’umanità.

Lo avvisano che nella notte il Sinedrio

aveva fatto arrestare, con l’aiuto di

Giuda, Gesù il Nazareno. Poi gli sbirri

l’avevano condotto a casa di Anna, da lì

a casa di Caifa, e ora lo portavano al

pretorio, da Pilato. Perché solo Pilato,

in quanto procuratore, poteva pronunciare

una sentenza di morte – e Caifa e

Anna volevano una sentenza di morte.

“Pilato odiava e disprezzava il Sinedrio”,

scrive Mauriac. Sinedrio che aveva

violato ogni regola durante l’arresto,

e che ora ogni violazione voleva vedere

sanata dal procuratore con l’avvio verso

la crocifissione. “Ciò che sappiamo su

di lui – spiega lo storico e biblista Mauro

Pesce a Corrado Augias nel libro ‘Inchiesta

su Gesù’ – tratteggia comunque

il profilo di un funzionario brutale, privo

di rispetto per la sensibilità religiosa

ebraica, pronto a usare la forza contro

disordini e sommosse. Nei racconti del

Nuovo Testamento, invece, il procuratore

viene visto come un uomo nobilmente

combattuto, tentato di liberare Gesù,

dalla cui personalità è evidentemente

affascinato. Alla fine decide la condanna,

ma quasi contro la sua volontà, sotto

la pressione della folla”. Si tira dietro

questa sorta di dualismo, di inestricabile

ambiguità, quello che fu a quel tempo

probabilmente solo un mediocre

funzionario. Gli recano Gesù, ma i sinedriti

non varcano la soglia del pretorio,

non mettono piede nel lithostrotos, il

cortile lastricato di marmo rosso, “la casa

di un pagano sarà ai vostri occhi come

quella di un animale”, non s’inchineranno

davanti al suo seggio, lì al centro.

Sottigliezze e superstizioni che irritano

il governatore, che però è uscito

sconfitto tutte le volte che ha provato a

sfidarle. “Prendetelo voi e giudicatelo

secondo la vostra legge”, dice. E quelli:

“Noi non possiamo pronunciare una

condanna a morte”. Comincia così il

lungo duello – con le parole del sogno di

sua moglie Claudia che gli risuonano

nella testa, “non ti immischiare nelle

cose di quel Giusto…” – il goffo tentativo

di sottrarre un giusto alla morte non

tanto in nome della giustizia quanto

piuttosto del rancore.

A leggere le cronache dei Vangeli, Pilato

cerca di sfuggire al suo ruolo di certificatore

di una morte decisa da altri,

un po’ con le parole che tutti abbiamo

in testa – “sei tu il re dei giudei?… da

parte mia non trovo contro di lui nessun

capo d’accusa… ecco l’uomo… prendetelo

voi per crocifiggerlo…” – e un po’

con i gesti che tutti ricordiamo – la flagellazione

come pena forse sufficiente,

il giudizio di Erode per spostare la decisione

ultima sulle spalle del tetrarca,

la proposta di liberare Barabba. Tutto

inutile. “Crocifiggilo!”, è ogni volta la risposta.

Ha fissato Gesù quando si sono

trovati da soli, faccia a faccia nel pretorio,

mentre i suoi accusatori restavano

fuori. Dice una leggenda che, mentre

l’accusato entrava nel cortile, le insegne

imperiali s’erano piegate da sole. Pilato

ha il giusto davanti e dietro l’ira certa di

Tiberio – all’imperatore, avevano minacciato

i capi del Sinedrio, si sarebbero

rivolti se non avesse mandato a morte

un ciarlatano che si proclamava re

della Giudea mentre solo Cesare lo era.

Secondo il Vangelo di Matteo, fece venire

dell’acqua e si lavò le mani, “non sono

responsabile di questo sangue”, e ecco

le parole degli accusatori: “Ricada

sopra di noi e sopra i nostri figli”. Spiega

Mauro Pesce: “Matteo scrive ‘tutto il

popolo’, parole che avranno nella storia

cristiana orribili conseguenze: tutto il

popolo d’Israele verrà considerato colpevole

della morte di Gesù, cosa radicalmente

falsa (…) tutte le narrazioni

concordano sul fatto che la decisione di

crocifiggere Gesù fu presa da Ponzio Pilato

sotto la sua diretta responsabilità”.

Nel commento al Vangelo di Giovanni,

scrive Ernesto Balducci: “L’abile senso

giuridico di Pilato introduce nel legalismo

della trama gerarchica giudaica alcuni

spazi di humanitas. Anzi, nel colloquio

con Gesù, dopo le prime mosse

ispirate al fastidio per quei teocrati passionali,

egli sembra entrare in contatto

col mistero di quel singolare imputato”.

Ogni cosa ha due facce, tanto nel reale

quanto nel mito di Pilato. Avviato Gesù

verso il Golgota, la storia del procuratore

della Giudea esce da ogni certezza

storica (se si esclude la destituzione

alcuni anni dopo) e diventato leggenda,

nera o sacra, insomma mito. Perché ecco

molta parte del fascino di Pilato: cosa

succede a un funzionario imperiale

che incrocia (in ogni senso) il più grande

mistero della storia del mondo? In

fondo è questa la suggestione del racconto

di France, di certi film (come “Secondo

Ponzio Pilato” di Luigi Magni o

“L’inchiesta”, di Damiano Damiani, ora

rifatto per la televisione da Giulio Base

e che andrà in onda su Rai Uno lunedì

e martedì). Il Pilato di Bulgakov dorme

e singhiozza. “D’ora in poi staremo sempre

insieme – gli diceva in sogno il lacero

filosofo-vagabondo, comparso, non si

sa come, sulla strada del Cavaliere Lancia

d’Oro, – non ci sarà l’uno senza l’altro!

se parleranno di me, parleranno

subito anche di te!”. Quello di France

ha portato l’odio per Gerusalemme fin

dentro la sua vecchiezza: “Ed è possibile

che, per quanto vecchio, mi sarà dato

di vedere il giorno in cui le sue mura

crolleranno, in cui le fiamme divoreranno

le sue case, in cui gli abitanti saranno

passati a fil di spada e il sale

sarà sparso sulla piazza dove il Tempio

sorgeva”: il sogno della devastazione di

Tito. Caillois immagina invece l’inimmaginabile:

Pilato che libera Gesù, gli

salva la vita ma rende vana la sua missione,

“a causa d’un uomo che, contro

ogni speranza, riuscì ad essere coraggioso,

non ci fu cristianesimo”. Di lui si

occupano studiosi come Vittorio Messori,

romanzieri come Eric-Emmanuel

Schmitt, “dubitare e credere sono la

stessa cosa. Solo l’indifferenza è atea”,

appunto registi come Magni, che immagina

Pilato vedere Cristo salire in cielo,

per andare poi a morire da pagano davanti

a Tiberio. Ha comunque ovunque

lo sguardo come perso per sempre, consegnato

all’eternità dalla sua stessa pavidità.

Non si sa con precisione dove sia

nato, il quinto procuratore della Giudea

– forse in Abruzzo o in qualche altra

parte d’Italia, forse in Spagna – ancor

meno si sa come e dove sia morto. Il

burocrate che invecchia conservando

memorie e rancori con la dimenticanza

da burocrate –“da uomo d’ordine e quasi

da precursore di Eichmann, di Ponzio

Pilato”, per Sciascia – magari sembra

epilogo troppo banale. Però in un

tempo non molto lontano dal suo, Tacito

scriverà della “esecrabile superstizione”

importata a Roma dai cristiani,

“quel nome essi derivano da Cristo, che

sotto il regno di Tiberio fu mandato a

morte dal procuratore Ponzio Pilato”: i

fantasmi lo avevano inseguito fin dentro

il cuore del suo mondo.

E dunque, ecco alcune storie su come

finì il quinto procuratore di Giudea, una

volta tornato a Roma nell’anno 789, l’anno

36 contando quelli dell’uomo che aveva

consegnato alla croce. Roma che lui

aveva cercato di servire, e ogni volta aveva

sbagliato. Certe leggende dicono che

fu fatto uccidere e il suo corpo gettato in

un lago dei monti Sibillini. Morì in

Abruzzo, dicono altri. A Roma, convertito

al cristianesimo, martire sotto Nerone.

Relegato nelle Torri Palatine, a Torino.

Suicida, per Eusebio di Cesarea. Fatto

giustiziare da Caligola. Ucciso da una

freccia dell’imperatore che mirava a una

gazzella. Nell’apocrifo “Morte di Pilato”,

si ammazza col proprio coltello, ma non

trova pace neanche il suo cadavere, “viene

legato ad un grosso masso e immerso

nel fiume Tevere. Gli spiriti maligni e

immondi, rallegrandosi di quel corpo

maligno e immondo, si agitavano tutti

nelle acque”. Finì in esilio a Vienne, sul

Rodano, nelle cui acque un giorno si

gettò. A volte, ancora adesso, sul fiume si

allunga l’ombra inquieta del procuratore

della Giudea: indossa la toga che portava

quel giorno nel pretorio, e chi ha la

sventura d’incontrare quell’ombra è destinato

a morire entro l’anno.

Poi, ci sono altre storie. Ponzio Pilato,

così bistrattato, è invece martire e

santo per la chiesa copta e per l’apocrifo

Evangelo di Gamaliele: “Salute a

Pilato che si lavò le mani per mostrare

che egli era puro del sangue di Gesù

Cristo…”. La professoressa Marta Sordi

avanza l’ipotesi che Pilato avrebbe

addirittura convinto Tiberio a presentare

in Senato un decreto che elevava

il cristianesimo tra i culti ammessi dall’impero.

Decreto che il Senato, comunque,

bocciò. “Certo è che Pilato – ha

scritto monsignor Gianfranco Ravasi –

rimane come una presenza incancellabile

nella storia di Cristo e del cristianesimo.

Ogni domenica, nel Credo della

Messa il suo nome, oscuro e marginale

per le anagrafi imperiali, è ripetuto

in tutto il mondo: fu crocifisso sotto

Ponzio Pilato…”. Nome che risuona in

una bellissima canzone di Fabrizio De

Andrè, “poterti smembrare coi denti e

le mani/ sapere i tuoi occhi bevuti dai

cani/ di morire in croce puoi essere

grato/ a un brav’uomo di nome Pilato”.

La sua vittima ha così tirato fuori dall’ombra

della storia l’oscuro procuratore.

Ma della sua famosa domanda:

“Quid est veritas?”, chissà se mai capì

la risposta, contenuta nella domanda

stessa: “Vir qui adest”.