Globalizzazione capolinea dell’Occidente: intervista a Massimo Fini
di Andrea Accorsi - 28/11/2005
Fonte: lapadania.com
Fini, gli ultimi immigrati clandestini scampati a un naufragio in Sicilia hanno detto di inseguire il “sogno italiano” dopo aver visto i nostri programmi alla televisione. Possibile che si imbarchino in una impresa così rischiosa solo per averci visto in tv, come fecero gli albanesi più di dieci anni fa?
«Bisogna fare una distinzione tra la prima invasione albanese all’inizio degli anni Novanta e quello che succede ora. Indubbiamente i primi albanesi furono attratti dai programmi televisivi italiani che vedevano, e dal fatto che era finito un regime dittatoriale e quindi per la prima volta avevano la libertà di muoversi. Erano persone che non avevano stretta necessità di emigrare: erano contadini o pastori, ben nutriti, o normalmente “nutriti”, che inseguivano effettivamente il sogno occidentale che la nostra televisione gli prospettava, senza sapere di che lacrime e di che sangue grondi questo sogno. Invece escluderei che l’attuale immigrazione - a parte quella politica, come i curdi provenienti dalla Turchia, che fuggono da una repressione infame - avvenga perché sono attratti dalla televisione: non si affrontano viaggi mortali a quella maniera per un motivo simile, ma perché nel proprio Paese non è più possibile vivere. Questo mi pare il senso dell’immigrazione attuale: non si viene qui per la Carrà di oggi, per la Ventura, si viene perché le condizioni del proprio Paese sono tali per cui non ci puoi più stare. L’immigrazione centroafricana è emblematica: si tratta di Paesi dove l’economia, la socialità, le tradizioni, il loro mondo insomma è stato completamente distrutto, o quasi, dall’ingresso invasivo e pervasivo dell’economia occidentale. Da una parte quindi c’è una perdita di identità e di punti di riferimento, dall’altra c’è la fame vera e propria. Quanto sia disastroso confondere la libertà politica con la libertà di mercato lo dimostra proprio l’esempio, a noi vicino, dell’Albania: un tempo questo era un popolo più che dignitoso e oggi è un popolo di delinquenti, sia nelle alte sfere che nella stragrande maggioranza della popolazione».
Ma in che misura il nostro Paese può soddisfare tutte queste aspettative?
«Se ci riferiamo all’immigrazione di oggi, poco importa a chi è spinto dalla disperazione se il Paese in cui va a incistarsi almeno in un primo momento è adatto ad accoglierlo. Se tu sei alla fame, vai da qualunque parte: andresti anche al Polo Nord, se pensassi che là c’è qualcosa da mangiare».
Però passano tutti dall’Italia, anche se diretti altrove...
«Passano tutti di qua per ragioni tecniche. L’Italia ha uno sviluppo di quattromila chilometri di coste, ed è ovvio che sia un passaggio facile e nello stesso tempo obbligato».
C’è, o c’è stato, un ruolo della Chiesa nel favorire il flusso di immigrati dal Terzo Mondo nel nostro Paese?
«Non so quale sia il ruolo della Chiesa. Certamente farei una inchiesta su che cosa fa effettivamente la Caritas. E poi la Caritas mi pare viva di sovvenzioni statali: è un problema di dettaglio, ma è un problema anche quello. Che poi la Chiesa l’abbia in qualche modo spinta o no, l’immigrazione è un fenomeno assai più profondo, provocato dall’invasione del mondo occidentale e non di altri, oltre che dalla devastazione e dalle fame. C’è poi anche una questione teorica. Se si postula che il capitale possa andare nei luoghi dove ritiene di essere meglio remunerato, lo stesso diritto devono averlo gli uomini. Non è immaginabile che il denaro abbia più diritti degli uomini: anche questi devono poter esportarsi là dove ritengono di essere meglio remunerati. Questa è la globalizzazione. Una globalizzazione a senso unico, nella quale possiamo portare i nostri capitali ovunque, devastando tra l’altro i Paesi in cui andiamo, e poi quelli non possano neanche muoversi, è una violenza che forse nemmeno Hitler aveva immaginato».
Alcuni, e fra questi la Lega, hanno sempre sostenuto che bisogna aiutare queste popolazioni a casa loro, sia per migliorarne le condizioni che per scoraggiarne l’emigrazione. È una strada percorribile?
«Purtroppo gli aiuti, anche quando dati con le migliori intenzioni, il che è raro, non fanno che peggiorare la situazione, perché in realtà sono intesi a integrare meglio questi Paesi nella globalizzazione, ma in questo modo li ostacolano ulteriormente. Credo che la cosa che veramente aiuterebbe, poniamo, l’Africa sarebbe lasciarla in pace, cioè ritirarsi da quel continente e lasciare che la sua gente si sviluppi o non si sviluppi secondo le proprie vocazioni. Ma naturalmente questo è impossibile, perché l’Occidente ha sempre bisogno di creare nuovi mercati, per poveri che siano».
Quindi siamo di fronte a un processo irreversibile?
«Sì, finché va avanti la globalizzazione. La quale procede in modo trionfante, che tra l’altro si riflette non solo sul Terzo Mondo ma anche sul Primo Mondo. Tant’è vero che prima di noi ha aggredito Paesi che non possono essere considerati del Terzo Mondo, come l’Argentina, il Venezuela e il Messico, e adesso comincia ad aggredire anche Paesi pienamente industrializzati, come l’Italia. Del resto la globalizzazione è, nella sua estrema sintesi, una competizione spietata fra tutti gli Stati del mondo, ed è ovvio che da essa usciranno quattro o cinque Paesi o aree fortissime circondate da un mare di miseria. Ed è questo che è estremamente insidioso, anche per l’Occidente che non guarda al di là del proprio naso: quattro-cinque Paesi, per quanto fortissimi, armatissimi, potentissimi, e peraltro con all’interno sperequazioni violentissime come gli Stati Unti d’America - dove esistono 35 milioni di poveri, poveri non in senso relativo, cioè americano, ma in senso assoluto - circondati da un mare di miseria, alla fine vengono sommersi dal mare di miseria».
In questo scenario dove si colloca l’Italia?
«Una delle poche ragioni dell’aggancio all’Europa è che forse così, in qualche modo ci si può salvare. Ma da sola, l’Italia non sarebbe certo fra quei quattro o cinque. Ci si può salvare, ma a prezzi inauditi, sulla nostra pelle: bisognerà smantellare il Welfare, visto che gli americani non ce l’hanno; bisognerà diminuire stipendi e salari, visto che dalle altre parti non pagano niente; bisognerà lavorare di più, e infatti altri Paesi si regolano in questo modo: in Germania, alcune grandi aziende hanno aumentato l’orario di lavoro e diminuito gli stipendi. Questa è la globalizzazione: poi mi devono spiegare quali sono i vantaggi...».
Dunque ci aspetta un livellamento verso il basso?
«Sì. Un livellamento verso il basso per la maggioranza della gente d’ogni parte del mondo, con la creazione di ricchezze impressionanti che oltretutto non hanno nessun senso, perché a un certo punto anche Bill Gates si è accorto che avere fantastilioni di dollari è inutile, perché non hai il tempo e il modo di spenderli».
Ma c’è qualcosa che possiamo fare: voglio dire, come dobbiamo rapportarci in maniera positiva di fronte a questa realtà che scivola verso scenari assai poco ottimistici?
«Oggi un singolo Paese è praticamente impotente. È un po’, elevato all’ennesima potenza, come un sindaco che si trovi in presenza del problema del traffico urbano: come fa a risolverlo dal momento che per cinquant’anni tutto è stato impostato sul traffico privato e sull’automobile? Potrà mettere in campo qualche palliativo, ma non può certo risolvere né quello, né il problema dell’inquinamento. Globalizzandosi tutto, è chiaro che le possibilità di intervento di un Paese sono minime. Cosa fai: respingi a cannonate gli immigrati? Questo creerà un’ulteriore esasperazione dall’altra parte, e regalerai truppe al terrorismo. Sono problemi di fondo che sono andati talmente avanti... Di tornare indietro, non ci pensa nessuno; le forze che spingono per la globalizzazione sono forze enormi; il localismo si riduce a folklore, se siamo tutti battezzati in un mare di Coca-Cola, se usiamo gli stessi prodotti, se vestiamo allo stesso modo e vediamo le stesse cose: si riduce al recupero del dialetto e alla difesa di un formaggio locale, ma non è questo il punto.
«Il recupero delle identità in un mondo globalizzato è praticamente impossibile, perché la globalizzazione è innanzitutto standardizzazione: è proprio il processo economico che vuole questo, chi vuole vendere vuole standardizzare al massimo. Sono gli esiti di un processo cominciato con la Rivoluzione Industriale a metà del Settecento e su cui bisognerebbe riflettere a fondo. Invece ci si affida a questa macchina che comincia a stritolare tutti, compresi gli apprendisti stregoni che pensano di guidarla. Le stesse guerre americane sono quasi necessitate, perché in un mondo del genere devi controllare tutte le fonti di energia, devi controllare tutto. E naturalmente questo comporta una risposta altrettanto violenta.
«Segnali d’allarme su che cosa significava un modello industriale portato avanti senza pensare alle conseguenze, ce n’erano già stati in passato. La crisi dell’idea di progresso, a parte alcuni casi anticipatori come Nietzsche, inizia con la prima guerra mondiale quando ci si rende conto che la tecnologia è un’arma bivalente, anzi in realtà è un’arma che ci si ritorce costantemente contro, non solo in guerra ma nel suo uso quotidiano: se non altro perché ti isola e ti distanzia dagli altri come da te stesso».
Anche stavolta sei riuscito a togliere il sonno a me e, immagino, a molti lettori.
«Purtroppo mi piacerebbe dire cose diverse, ma io la vedo così e mi sembrerebbe di ingannare il mio interlocutore se spargessi un ottimismo che non ha ragion d’essere. Lasciamo perdere i politici, i quali hanno il problema del “qui e ora” e quindi - a parte che non vedono al di là del proprio naso - devono affrontare questioni molto concrete e cogenti. Ma non c’è un pensiero in Occidente che pensi se stesso, alla modernità, che orienti la politica. C’è un meccanismo che va per conto suo, questa è la verità, ed è un meccanismo che oltre a provocare i disastri di oggi, tutti sanno, compresi i padroni del vapore, che comunque andrà a sbattere: arriverà il momento di un collasso generale, perché le crescite esponenziali esistono in matematica ma non in natura. Per cui a un certo punto, nel momento in cui il modello non potrà più espandersi, collasserà. I governanti di oggi se ne fregano, nel senso del “dopo di me il diluvio” di Luigi XV; oppure, se avessero la cultura, potrebbero rispondere come Oscar Wilde, dicendo sarcasticamente “che cosa hanno fatto i posteri per noi?”. Purtroppo stiamo andando a una velocità tale che rischiamo di diventare noi i posteri di noi stessi.
«Queste riflessioni non le vedo fare in giro. Può darsi anche che siano esagerate o sbagliate; però è indubbio che meriterebbero se non altro una certa attenzione, un calcolo dei costi e dei ricavi fatto razionalmente. Io non sono Guénon, o Evola o De Maistre. Argomento, e mi si potrebbe confutare con altri argomenti. Ma non vedo niente di questo. Vedo un affidarsi cieco ad un meccanismo altrettanto cieco, che si autoriproduce e si alimenta da solo».
Un’ultima domanda che esula dal discorso fatto fin qui: giovedì sera sei tornato in tv, al “Senso della vita” di Bonolis, ma subito dopo hai detto che la tua presenza in quella sede non avrà un seguito. Che cosa è successo?
«Ho accettato quella proposta perché mi era stato garantito uno spazio in cui si parlava del senso della vita, com’è il titolo della trasmissione, e in cui si sarebbero affrontati i temi che mi sono cari. Ma avevo già firmato per la mia presenza solo a una puntata, perché il programma di Bonolis è molto incentrato sulla sua chiave di divertissement, e non so quanto questi discorsi vi si possano inserire in modo armonico».