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Adriano Sofri, il Burkina Faso, i fagiolini e il neocolonialismo dei buoni sentimenti

di Carlo Gambescia - 02/04/2007

 

Le vie del neocolonialismo sono infinite, come quelle della Provvidenza e del Mercato. Ieri su la Repubblica è apparso il consueto editoriale di Adriano Sofri, tutto cuore e ragione (tipo Cime tempestose in settemila battute, ma con lieto fine, come piace all’ultimo Sofri neoromantico). Questa volta Sofri ha difeso l’acquisto “equo e solidale” di fagiolini, prodotti da una cooperativa del Burkina Faso (Africa Occidentale), da parte dell’Unicop di Firenze. Fagiolini che giungono in Italia per via area. Sofri replica alle critiche piovute da Liberazione sull’ intera operazione. Ma vediamo prima le accuse.
Il trasporto per via aerea inciderebbe sull’effetto serra; minerebbe la ”sovranità alimentare” del Burkina Faso incrementando solo l’agricoltura per le esportazioni; infine rovinerebbe, attraverso la concorrenza sleale, gli agricoltori italiani.
Sofri risponde puntando, non tanto sulla natura altamente morale dell’operazione, quanto sul fatto che grazie alla forza espansiva del libero mercato del "fagiolino burkinabè" tutti possono trarne vantaggio: il contadino del Burkina Faso, che vende il suo prodotto; la Coop che ne ricava il giusto guadagno; il consumatore italiano che invece di pagare i fagiolini 5,50 euro al chilo, può pagarli alla Coop di Firenze 3,50. Senza volere offendere nessuno, sembrano i conti della serva…
In realtà, Sofri fa lo stesso ragionamento di Bersani, di Padoa-Schioppa, dei professori del Corriere della Sera, e così via fino agli economisti della Scuola di Chicago. Ragionamento che in sostanza si riduce alla formuletta "Meno Stato più Mercato, o meglio "Solo Mercato niente Stato". Ed è quello che è avvenuto nel Burkina Faso. Gli esperti di economia dello sviluppo che ne sanno più di noi, parlano di un Paese che a causa delle radicali privatizzazioni, iniziate nel 1991 si è enormemente impoverito, perché costretto a ricorrere sempre più al capitale straniero, privilegiando così le produzioni destinate all'esportazione (cotone, arachide e karité) rispetto a quelle di sussistenza (miglio, riso, mais, soia, manioca e patata dolce). In realtà, l’esportazione di fagiolini, che non rientra nelle produzioni per la sussistenza, e che non è una voce importante tra quelle per l’esportazione, nulla toglie e nulla aggiunge a una situazione già disastrosa… Tuttavia quel che infastidisce è la difesa sofriana di un libero mercato che nel tempo potrà solo accrescere la povertà delle popolazioni del Burkina Faso. Dove la mortalità infantile è ancora al 106 per cento e la durata media della vita è di 47 anni. Dati, che insieme basso reddito e all’elevato tasso di analfabetismo, contribuiscono a collocare il paese al quintultimo posto nella graduatoria mondiale dello sviluppo umano (per questi dati e per altre informazioni più aggiornate rinviamo al sito http://www.socialwatch.org/ ).
Il che significa che quanto più il Burkina Faso si aprirà al mercato internazionale, puntando sulle monocolture da esportazione (fagiolini inclusi) tanto più si impoverirà. Che poi i lavoratori di una cooperativa esportatrice, possano o meno migliorare, le proprie individuali condizioni economiche, non cambia certo il dato strutturale (e collettivo) della dipendenza neocoloniale dall’Occidente. Di più: si tratta di processi, che come è noto, influiscono, rendendola ancora più rigida, sulla struttura sociale a piramide dei cosiddetti paesi a economia neocoloniale: alti gradi militari e pochi ricchi esportatori in alto e molti poveri disperati in basso; in mezzo le cooperative, come quelle idealizzate da certa sinistra dei buoni affari. Le quali non sono altro che piccole e fragili isole. La cui esistenza finisce per dipendere dai desideri di viziatissimi consumatori occidentali e dai venali e mutevoli interessi degli importatori internazionali. Pertanto il problema va ben oltre quello della pura sovranità alimentare, dal momento che riguarda la struttura sociale di tipo oligarchico di molti paesi africani. Struttura che dipende dai rapporti di forza internazionali e dagli equilibri geopolitici e militari controllati dagli Stati Uniti, ai quali le oligarchie di cui sopra devono la loro fortuna. Si tratta di relazioni, ripetiamo strutturali, sulle quali il “commercio equo e solidale”, anche quello animato dalle migliori intenzioni, non può e non potrà influire che in misura minima. L’economia, purtroppo, si regge su preventivi rapporti di forza. E dove non c’è equilibrio politico, spesso serve la spada… Il dolce commercio non basta. Ma questa è un’altra storia.
Di riflesso, sperare di risolvere i problemi dell’Africa occidentale solo con "il fagiolino equo e solidale" è vergognoso.
In primo luogo, perché è da ipocriti far finta di nulla. In secondo luogo, perché girandosi dall’altra parte, o ammirando solo quel che folclore buonista impone di guardare, si favorisce chi punta a mantenere l’Africa nelle pietose condizioni attuali: innanzitutto i grandi importatori internazionali), e poi gli Usa che fanno affari d'oro con le oligarchie di cui sopra. Che poi questi importatori si chiamino Coop, e siano difesi sulla "progressista" Repubblica da un Adriano Sofri, convertitosi al liberismo, sono solo fatti che indicano quanto certa sinistra “riformista”, tutta buoni affari e pace universale, sia caduta in basso.
E quanto le sarà difficile rialzarsi.