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Difficile riconoscere Israele

di Uri Avneri - 02/04/2007

 
 

«Scandalo! Nei libri di scuola palestinesi, non c’è traccia della Linea Verde. Questi non riconoscono l’esistenza di Israele, nemmeno nelle frontiere del 1967!»
Scrivono che le «bande sioniste» hanno rubato il Paese agli arabi!
Ecco come avvelenano l’anima dei lori figlioletti!
Queste rivelazioni agghiaccianti sono state pubblicate in Israele e in tutto il mondo.
La conclusione è ovvia: l’Autorità Palestinese, che è responsabile dei libri scolastici, non può essere partner nei negoziati di pace.
Che sorpresa!
La verità è che non c’è niente di nuovo.
Ogni qualche anno, quando tutti i pretesti per rifiutare di parlare con la dirigenza palestinese sono esauriti, si ricorre all’arma estrema: gli abbecedari palestinesi fanno appello alla distruzione di Israele.
Le munizioni sono fornite ogni volta da istituzioni «professionali».
Sono fondazioni di estrema destra mascherate da organismi «scientifici» generosamente finanziati da miliardari ebreo-americani.
Schiere di impiegati stipendiati passano al pettine ogni parola dei media e dei libri di scuola arabi, con l’obbiettivo di dimostrare che sono antisemiti, che predicano l’odio verso Israele e che invocano l’assassinio degli ebrei.
Nella foresta delle parole, non è mai difficile trovare le citazioni giuste ignorando tutto il resto.
Tutto è così chiarissimo: i libri di scuola palestinesi allevano una nuova generazione di terroristi.
Di conseguenza, è escluso che Israele e il mondo mettano fine all’embargo contro i palestinesi.
Vediamo allora cosa accade dalla nostra parte.
Cosa insegnano i nostri libri di scuola.
Vi appare la Linea Verde?
Riconoscono il diritto dei palestinesi di avere uno Stato al di là delle nostre frontiere del 1967?
Insegnano, non si dice ad amare i palestinesi, ma l’esistenza stessa del popolo palestinese, o il rispetto per gli arabi in genere?
Risposta: no, assolutamente no.
Di recente il ministro della Pubblica Istruzione Yuli Tamir ha dichiarato l’intenzione di segnare  la Linea Verde nei libri di scuola israeliani, da cui era stata cancellata 40 anni fa.
La destra ha reagito con furore, e non se ne è più parlato.

Dall’asilo infantile fino all’ultimo giorno di liceo, lo studente israeliano non viene informato affatto che gli arabi hanno un qualunque diritto su una qualunque parte di questa terra.
Al contrario, egli apprende che la terra appartiene agli ebrei, che Dio l’ha data a loro personalmente, che ne siamo stati cacciati dai Romani dopo la distruzione del nostro Tempio nell’anno 70 (un mito) ma che noi ci siamo tornati grazie al movimento sionista.
Da allora, insegnano i libri, gli arabi non hanno mai cessato di tentare di sterminarci, come d’altra parte hanno fatto i goym ad ogni generazione.
Nel 1936, le «gang» arabe (termine ufficiale israeliano per indicare i combattenti della rivolta araba) ci hanno aggredito e assassinato.
E continuano anche oggi.
Quando esce da questo stampo pedagogico, lo studente ebreo israeliano «sa» che gli arabi sono un popolo primitivo, con una religione omicida e una cultura molto povera.
Lo studente porta questi concetti con sé quando, qualche settimana dopo, viene arruolato nell’armata.
E  qui, questo modo di vedere gli arabi è automaticamente confermato.
L’umiliazione quotidiana ai posti di blocco dei vecchi e delle donne, altrimenti, non sarebbe possibile.
Il problema è sapere se i libri di scuola hanno davvero tutta questa influenza sugli scolari.
Fin dall’infanzia i bambini sono impregnati dall’atmosfera del loro ambiente.
I discorsi che sentono in casa, le immagini della TV, ciò che vedono nella strada, le opinioni dei compagni, tutto questo li influenza assai più che i libri.
Un bambino arabo vede alla TV una vecchia donna araba che piange mentre la sua casa è demolita. Vede sui muri le foto dei martiri eroici, figli del suo quartiere, che hanno sacrificato la vita per il popolo e la patria.
Apprende ciò che è successo a un suo cugino, assassinato dai malvagi ebrei.
Sente dire da suo padre che non può comprare carne o uova perché gli ebrei non gli consentono di andare al lavoro e nutrire la famiglia.
A casa, per lo più, non c’è acqua.
La mamma parla del nonno e della nonna che da 60 anni marciscono in un miserabile campo di rifugiati in Libano.
Egli sa che i membri della sua famiglia sono stati cacciati dal loro villaggio, che è diventato Israele e dove ora vivono gli ebrei.
L’eroe della sua classe è il ragazzo che è saltato su un tank israeliano, che ha osato lanciare un sasso da dieci metri al soldato che gli puntava contro il mitragliatore.


Un giorno siamo andati in un villaggio palestinese per aiutare gli abitanti a ricostruire una casa che era stata demolita il giorno prima dall’esercito.
Mentre gli adulti lavoravano al tetto, i ragazzini del posto si sono radunati attorno a Rachel, mia moglie, mostrando un vivo interesse per la sua macchina fotografica.
«Chi siete, americani?».
No, siamo di qui.
«Siete messihilin (cristiani)?».
No, siamo israeliani.
«Israeliani!?» (risata generale): «Gli israeliani sono così: bum, bum bum» (i ragazzini imitano i soldati che prendono la mira).
«No, davvero, di dove siete?».
Israeliani, siamo ebrei (si scambiano delle occhiate).
«Perché venite qui?».
Per aiutare (sospiri, risatine).
Uno dei ragazzini corre da suo padre: papà, questa donna dice che sono ebrei.
E’ vero, conferma il padre imbarazzato, ma sono ebrei buoni.
I ragazzini vanno via.
Non sembrano convinti.
Cosa possono cambiare di questo i libri scolastici?
E dalla parte ebraica israeliana? (1)
Fin dalla più tenera età il bambino vede alla TV immagini di attacchi suicidi, i corpi fatti a pezzi, i feriti portati via da ambulanze con sirene urlanti.
Impara che i nazisti hanno ammazzato tutta la famiglia di sua mamma in Polonia, e nella sua mente, nazisti e arabi diventano una cosa sola.
Tutti i giorni, l’informazione gli dice che gli arabi vogliono distruggere lo Stato e gettarci a mare. Sa che gli arabi vogliono ammazzare suo fratello soldato, senza ragione alcuna, semplicemente perché sono degli assassini.
Nessuna informazione gli viene sulla vita nei «territori», spesso a pochi chilometri da lui.
Fino a quando non è mobilitato, gli unici arabi che incontra sono arabi israeliani che fanno lavori subalterni.
Quando entra nell’esercito, non li vede più che attraverso il collimatore, poiché ognuno di loro è un «terrorista» in potenza.
Perché un cambiamento nei libri abbia un qualche valore, è la realtà sul terreno che bisogna cambiare.
Ma non bisogna sottovalutare i libri.


Ricordo di aver tenuto una conferenza in un kibbutz negli anni ‘60.
Avevo spiegato la necessità di far nascere uno Stato palestinese a fianco di Israele (idea davvero rivoluzionaria, all’epoca), e uno dei membri del kibbutz si alza e mi chiede: «Non capisco! Tu vuoi che restituiamo tutti i territori che abbiamo conquistato. I territori sono cose concrete, la terra, l’acqua. Che cosa avremo in cambio? Parole astratte, come ‘pace’? Che cosa avremo come tachles?» (parola yiddish che designa tutte le cose pratiche).
Ho risposto che dal Marocco all’Iraq ci sono decine di migliaia di aule scolastiche e che, in ciascuna, è appesa al muro una mappa.
Su ciascuna di queste mappe il territorio di Israele è chiamato «Palestina occupata».
Ciò di cui abbiamo bisogno, ho detto, è che il nome «Israele» appaia su quelle carte.
Sono passati quarant’anni, e il nome Israele non compare sui libri di scuola palestinesi, né su quelle migliaia di carte geografiche nelle scuole.
S’intende che nemmeno il nome «Palestina» compare sulla carte appese nelle scuole israeliane.
Solo quando il giovane viene arruolato, egli vede una carta dei «territori», con un puzzle demente di zone A, B, C, di blocchi di «colonie» e di strade di apartheid.
Una carta è un’arma.
Da bambini in Germania tra le due guerre, ricordo una carta appesa nella mia aula.
Mostrava la Germania con due frontiere: l’una, verde, era la frontiera esistente, imposta dal trattato di Versailles dopo la (prima) guerra mondiale.
L’altra, in rosso vivo, era la frontiera d’anteguerra.
In migliaia di classi in tutta la Germania (governata allora dai social-democratici) gli scolari avevano tutti i giorni davanti agli occhi la terribile ingiustizia fatta alla Germania, quei brani di essa che le erano stati strappati da tutti i lati.
Così fu allevata la generazione che riempì i ranghi della macchina da guerra hitleriana nella seconda guerra mondiale.
Ripeto oggi quel che dissi allora nel kibbutz: lo scopo dev’essere che il ragazzino di Ramallah veda, appesa al muro della sua aula, una carta sulla quale sia indicato lo Stato d’Israele.
E che il ragazzino di Rishon-Sion veda, appesa al muro della sua classe, una carta in cui sia indicata la Palestina.
E non per obbligo, ma volontariamente.


Ma questo è impossibile finchè Israele non ha frontiere.
Come si può disegnare su una carta uno Stato che, dal suo primo giorno, coscientemente e categoricamente, rifiuta di definire le proprie frontiere?
Possiamo davvero esigere dal ministero della Pubblica Istruzione palestinese che pubblici una carta sulla quale tutto intero il territorio della Palestina si trovi all’interno di Israele?
E d’altra parte, come si può segnare il nome «Palestina» se non c’è uno Stato palestinese?
Di fatto, anche tutti quei politici israeliani che sostengono (almeno a parole) la «soluzione a due Stati», fanno di tutto per evitare di dire dove si troverebbero le frontiere dei due Stati.
Tsipi Livni, la ministra degli Esteri, è totalmente contraria all’intenzione annunciata dalla sua collega dell’Istruzione, Yuli Tamir, di segnare sui libri di scuola la Linea Verde: per paura che questa venga considerata come la frontiera.
Pace vuol dire una frontiera.
Una frontiera fissata di comune accordo.
Senza una frontiera, non si può avere la pace.
E senza pace, è il colmo dell’impudenza [chutzpah, impudenza in yiddish) esigere dalla controparte una cosa che rifiutiamo totalmente di fare noi stessi.




Note
1)
Secondo l’ultimo sondaggio realizzato in Israele dal Centro per l’antirazzismo (pubblicato il 20 marzo 2007), il 37% degli ebrei israeliani pensa che la cultura araba sia «inferiore». Quando sentono parlare arabo, il 50% prova paura, e il 31% odio. Il 55% ritiene gli arabi israeliani un problema per la sicurezza. Il 55% vuole che arabi ed ebrei siano segregati nei luoghi destinati al tempo libero. Il 40% pensa che gli arabi israeliani debbano essere privati del diritto di voto. Israele è lo Stato più antisemita del mondo. (Rèseau Voltaire, 31 marzo 2007).