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Poveri ma imbelli

di red.is - 02/04/2007

Fonte: isinsardegna

 
Ce n’eravamo accorti tutti, ma ora è ufficiale: dal 2000 in Italia gli stipendi non crescono e l’inflazione aumenta. A fronte di una crescita media del salario comunitario europeo del 18%, in Italia i lavoratori dell'industria e dei servizi hanno visto aumentare lo stipendio solo del 13,7% (mentre nel Regno Unito crescevano del 27,8%).

Il reddito annuo netto in Italia è in media di 16 mila 242 euro. Meglio solo del Portogallo, ultimo in Europa, dove in media si guadagnano 13 mila136 euro all’anno. Negli ultimi tre anni, poi, la posizione del Paese è peggiorata: nel 2004 e ancora nel 2005 le retribuzioni nette erano superiori a quelle della Grecia e appena inferiori a quelle spagnole: la Grecia ci ha sorpassati l’anno scorso. Mentre in Europa gli stipendi crescevano nell'ordine del 15% in tre anni (con punte di oltre il 30% per Gran Bretagna e Grecia) il salario italiano aumentava solo del 4,1%.

L’Eurispes, che ha condotto il sondaggio, parla di potere di acquisto «infimo» per il consumatore italiano.
C’è chi dice che è tutta colpa del cuneo fiscale, cioè la differenza fra quanto un salariato costa al datore di lavoro e quanto effettivamente riceve in busta paga. Ma i conti non tornano: il costo del lavoro è da noi inferiore del 30,6% (cioè 9,4 euro) rispetto a quello della Danimarca (dove è il più caro), mentre il salario lordo del dipendente italiano è mediamente il 52% di quello del dipendente danese.
Siamo quasi ultimi: la retribuzione oraria media lorda da noi è di 21,3 euro contro i 30,7 della Danimarca.

Qualcuno, incluso il commissario Ue agli affari economici e monetari Joaquin Almunia, ci invita alla moderazione salariale per «riguadagnare competitività». Gente che nella migliore delle ipotesi non sa di cosa parla.
Escludendo i recentissimi “exploit”, l’economia italiana è uno di quei casi che non si trovano nemmeno sui manuali di economia: bassi salari, inflazione –quella vera– altissima ed elevati consumi; basso costo del lavoro e crisi cronica del settore industriale (se “esperti” come Almunia si facessero un giro per la Penisola e vedessero quanti sono gli operai in cassa integrazione e quante industrie chiudono ogni mese, ci penserebbero due volte prima di abbandonarsi a simili idiozie).
Interpretare questo quadro non è facile, come è normale in economia. Ma usando un po’ di buon senso si può capire qualcosa.
Primo: gli italiani continuano a spendere, e molto. Incoscientemente: visto che i soldi in busta paga non bastano più nemmeno per arrivare a fine mese, spendono i risparmi e/o prendono denaro a prestito. In regime di alta inflazione e salari reali in picchiata, un suicidio.
Secondo: se l’intero sistema produttivo italiano è agonizzante, la colpa è prima di tutto di una classe imprenditoriale generalmente mediocre, ignorante, miope, provinciale e inetta: dopo anni passati a incassare gli extraprofitti dell’euro e ad avvantaggiarsi (grazie ai salari da fame che pagano) del costo del lavoro più basso di tutti i Paesi industrializzati, ancora oggi imprenditori e artigiani non sanno fare altro che continuare a lamentarsi della Cina, ritardare i rinnovi contrattuali per spuntare 30 euro lordi al mese ai propri dipendenti e chiedere l’intervento (soldi inclusi) dello Stato.
Di fronte a una mentalità del genere, si può bene capire che genere di «miracolo» con tutti i crismi sia a suo tempo stato che l’Italia riuscisse a essere accettata fra i sette grandi Paesi più industrializzati.

Cosa fare? Se si provasse a guardare all’estero per trarne, una volta tanto, un esempio positivo, la soluzione sarebbe a portata di mano: l’evoluzione. Mentre noi restiamo, miserabilmente, attaccati al vecchio e obsoleto sistema produttivo industriale (e sindacale), in Paesi come la Danimarca hanno gli stipendi fra i più alti d’Europa, bassissima disoccupazione e uno Stato sociale efficiente. Quando in Danimarca si viene licenziati non ci sono articoli 18 né casse integrazioni (che invece qui purtroppo servono): lo Stato paga un (alto) sussidio di disoccupazione e finanzia corsi di riqualificazione al mondo del lavoro. Che per parte sua, ha bisogno di impiegati nei nuovi settori produttivi. Nel giro di pochi mesi o un anno chiunque può contare di riprendere a lavorare senza problemi. E ben pagato. Il sistema funziona al punto che spesso i danesi si licenziano perché si sono stancati del loro lavoro e hanno voglia di cambiare vita.
Questo “Paese dei balocchi” non è in paradiso, e nemmeno in America: è qui, in Europa, a poche migliaia di chilometri dalle nostre Alpi. Non è un caso singolo: in tutta Europa i salariati hanno stipendi (e costo del lavoro) largamente superiori ai nostri.
Nel caso della Danimarca è però più evidente una delle ragioni fondamentali di questa differenza: la tecnologia. «La Danimarca - spiega Irene Mia, senior economist del World Economic Forum - ha beneficiato della lungimiranza del suo governo in tema di information and communication technology (Ict). Ha livelli eccezionali nell'uso di Internet e del Pc. Formazione, ricerca e sviluppo hanno contribuito alla creazione di un’industria high-tech di eccellenza».
Questo vale in particolare per la Danimarca, prima nella classifica dei Paesi a più alto contenuto tecnologico al mondo. Ma anche Svezia, Finlandia e Norvegia si trovano rispettivamente al secondo, quarto e decimo posto di questa graduatoria molto significativa.
Manco a dirlo, l’Italia nella classifica si trova al 38esimo posto, penultima europea prima della Grecia. Terzultima è la Francia, al 23esimo posto, in una graduatoria che nelle prime venti posizioni vede quasi solo Paesi europei.
Finché l’Italia non apparirà in questo genere di graduatorie in mezzo agli altri Stati dell’Unione Europea, per chi vive del proprio stipendio il ventisette del mese sarà sempre più lontano.