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In Iraq si può fare informazione solo a partire dai comunicati degli occupanti

di Lucas Marco - 02/04/2007





 

La giornalista italiana de Il Manifesto ha partecipato al I Fòrum de Periodistes de la Mediterrània (Forum dei Giornalisti del Mediterraneo). Conosciuta per le sue convinzioni pacifiste, prima della guerra in Iraq ha viaggiato in Afghanistan, Algeria, Iran o Palestina. Narra i fatti dell'Iraq nel suo ultimo libro, "Fuoco amico" (Giangiacomo Feltrinelli editore). Diagonal ha conversato con la giornalista veterana sulla situazione in Iraq e sul suo vissuto nel paese occupato.

Diagonal : Poco tempo dopo essere stata liberata e posteriormente coinvolta nella sparatoria, ha affermato che Falluja era stata rasa al suolo per preparare le elezioni. Come vede la situazione politica in Iraq da allora?

Giuliana Sgrena : Le elezioni non erano inquadrate in un processo di democratizzazione, per tanto non sono state una libera espressione del popolo. È stata un'opportunità per alcune comunità, come la sciita, per prendere il potere contro i sunniti e con la partecipazione dei kurdi. Si è prodotta una spartizione del potere tra sciiti e kurdi e così non può garantirsi una rappresentanza di tutti. Ha acuito la divisione tra comunità. Gli sciiti hanno partecipato alle elezioni con una lista confessionale, in cui ci sono tutti i partiti religiosi sciiti. La partecipazione sarà confessionale e questa non è un'espressione di libertà, bensì la maniera di giungere al potere dei leader religiosi sciiti. Questi partiti religiosi hanno il controllo della situazione e le loro milizie armate prendono campo. Le stesse milizie religiose fanno parte della polizia irachena e si sentono più vincolate ai loro leader religiosi che all'autorità irachena. Non si può garantire un vero controllo dello Stato. Per quanto riguarda i sunniti il campo è controllato invece dalle forze della resistenza. Anche nella resistenza ci sono fondamentalismi religiosi, ci sono forze differenti, molte volte in contraddizione. I kurdi hanno una dinamica di autonomia molto forte, ma hanno ancora problemi, come quello della città di Kirkuk, che produce il petrolio.

D.: Come è stata la copertura informativa della guerra?

G. S.: Durante la guerra c'è stata un'informazione più pluralistica perché c'erano giornalisti che stavano a Baghdad, c'erano giornalisti embedded [operatori che si muovono al seguito e sotto la protezione della truppe USA NdT ]. Gli iracheni controllavano molto l'informazione, ma a partire dal momento in cui essi se ne sono andati, il controllo si è rilassato e c'è stata un'informazione con diversi punti di vista. Parallelamente alle minacce contro i giornalisti stranieri da parte di iracheni, sono iniziate le minacce dei militari e dei mercenari della guerra privata. Questo ha limitato moltissimo la possibilità di fare informazione indipendente. I giornalisti subivano una minaccia che a volte non era esplicita. I fatti dell'hotel Palestine erano un chiarissimo avviso a tutti i giornalisti in Iraq. Uccisero anche un giornalista di Al-Jazzeera e un palestinese di fronte al carcere di Abu Ghraib.

D.: È possibile fare informazione indipendente in Iraq?

G. S.: Quando coloro che combattevano gli occupanti hanno cominciato a sequestrare i giornalisti occidentali e arabi, fare informazione è diventato molto più pericoloso. Prima di andare l'ultima volta in Iraq, dicevo che bisognava assumere il rischio di informare in Iraq. Oramai non posso più dirlo. Nonostante tutte le precauzioni che ho preso sono stata sequestrata. Penso che in questo momento non sia possibile fare informazione indipendente in Iraq. Per informare dall'Iraq, devi andare embedded con le truppe, stare nella zona verde o rinchiuderti in un hotel e delegare collaboratori iracheni, con grande rischio per questi poiché sono parimenti nel mirino dei terroristi, della resistenza irachena e degli occupanti. Si può fare informazione solo a partire dai comunicati degli occupanti, che non si possono contrastare. Dobbiamo farci carico del problema dell'informazione in Iraq perché, se non si informa, la guerra si allontana a beneficio dell'Occidente.

D.: Il suo sequestro senza dubbio racchiudeva questa contraddizione…

G. S.: Per me è stata una grande frustrazione quando sono stata sequestrata. Io dicevo ai miei sequestratori che cercavo di informare l'opinione pubblica italiana di ciò che patiscono gli iracheni. Mi sentivo ostaggio di me stessa.

D.: A quali conclusioni è giunta l'indagine sulla sparatoria?

G. S.: I magistrati che hanno condotto l'indagine hanno concluso che, per quel che si riferisce all'attacco all'auto, nemmeno hanno avvisato, hanno sparato direttamente. Un altro fatto importante che è stato aggiunto è che hanno sparato 58 proiettili contro l'auto in direzione dei passeggeri e non delle ruote. Se spari all'altezza dei passeggeri, hanno concluso i magistrati, spari per uccidere. Hanno chiesto al giudice un processo contro il soldato Mario Lozano per omicidio politico volontario di Nicola Calipari e tentato omicidio volontario contro me e l'altro agente. Il giudice ha acconsentito che vi sia un processo, che inizierà il 17 aprile.

D.: I processi contro rappresentanti statunitensi fuori del loro paese hanno mostrato l'impunità con cui agiscono. Lei cosa spera da questo processo?

G. S.: Spero che attraverso il processo si possano fornire altre testimonianze che aggiungano qualcosa su ciò che è davvero accaduto. Inoltre, Lozano è un responsabile, ma non il più importante. Egli ha sparato, ma qualcuno gli ha dato l'ordine. Oltre a tutto ciò, è anche un processo simbolico. È un modo di ridurre l'impunità che hanno i soldati nordamericani fuori dal loro paese.

D.: La chiara intenzionalità del “fuoco amico” statunitense sembrava mirare a lei come giornalista indipendente. Crede che si trattava solo di attaccare l'informazione?

G. S.: Non so se è stato solo per l'informazione. Il Governo italiano, bisogna riconoscerlo, ha sempre negoziato la liberazione, contro quanto volevano gli americani. Ha lavorato per liberarmi attraverso gli agenti, che avevano buoni contatti dentro e fuori dall'Iraq. Quando Calipari ha deciso di andare lui stesso era perché considerava la faccenda molto pericolosa. Inoltre ha avvertito i suoi compagni: “Occhio ai soldati degli Stati Uniti perché hanno il grilletto facile”.

D.: Chi crede che la sequestrò?

G. S.: Per quel che ho potuto ricavare dal mio contatto con i sequestratori, l'impressione che ho avuto è che facessero parte della resistenza, non erano criminali comuni, erano molto politicizzati, non erano nemmeno jihadisti perché mi dicevano di non aver niente a che vedere con Al-Zarqawi. Sospetto che fosse un altro gruppo della resistenza, più probabilmente baathista o saddamista. Erano musulmani ma non fondamentalisti.


Eufemismi di guerra

Manuel Tabernas

Dire che l'informazione che ci giunge dll'Iraq proviene da fonti poco contrastabili e un modo delicato per dire che ci giunge solo la versione degli Stati Uniti. Dette informazioni omettono sempre le operazioni di varie migliaia di effettivi di società private di sicurezza il cui principale cliente è, precisamente, il Governo USA. È risaputo che gli eserciti occidentali ormai non entrano in guerra, bensì “partecipano ad azioni umanitarie”. E le perdite dovute all'uso di uomini armati di un altro paese sul suolo di un territorio in conflitto non sono un atto di guerra, bensì una faccenda che, come diceva un titolo di El País , “riapre il dibattito sulla sicurezza”. È abituale parlare di “un'altra giornata di violenza in Iraq”, e della morte di “un altro” giornalista. Senza nemmeno mostrare il sospetto che non tutti gli attentati sono della resistenza all'occupazione o che ci sono ordini dall'alto comando statunitense di rendere la vita impossibile a tutti i giornalisti che cerchino di informare dal posto.

tradotto per Megachip da Massimo Marini
da www.diagonalperiodico.net